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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Luca Alessandrini

Apres la pluie vient le beau temps

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Imma era poco più di una bimba quando zio Antonio trovò Karim al largo, aggrappato al rottame di legno. I pescatori l’avevano accompagnato fin sulla soglia, e lei s’era nascosta dietro l’angolo della casa perché tutti quegli uomini le mettevano paura. Dalla finestra della cucina aveva visto lo zio posare sulla tavola il corpo, nero e lucente come le pietre che si trovano ogni tanto alla cava. Poi avevano chiamato le donne e quelle s’erano messe a lavarlo - zia Assunta gli aveva tolto le braghe stracciate e Imma le aveva sentite ridere, prima che qualcuna serrasse le persiane.

Ci mise due settimane a decidere se voleva vivere ancora, Karim. L’avevano messo nella baracca dei braccianti, e lì venne il dottore che lo zio pagò storcendo la bocca come aveva fatto la volta che aveva dovuto comprare le scarpe per Imma. In paese non capivano perché Antonio si fosse preso in casa il sarracino, visto che si lamentava sempre di dover fare da padre alla figlia del fratello morto. Ma Imma lo aveva sentito parlare con la zia: il ragazzo aveva le ossa forti e lui ne avrebbe fatto un bracciante.

Appena poteva Imma correva alla baracca - doveva stare attenta, una volta zia l’aveva scoperta e picchiata col mestolo di legno fino a farle venire la febbre. Quindi aspettava che quella partisse per i campi e si arrampicava sul fico per guardarlo dormire. Una volta Karim aveva aperto gli occhi e l’aveva fissata. Occhi molto grandi, dove di paura ce ne stava ancora tanta.

Una mattina, scendendo in cucina, Imma lo trovò seduto a tavola. Era molto magro e mangiava come se non avesse mai visto un pezzo di pane. Lo zio lo guardava e rideva; zia Assunta invece sembrava arrabbiata. Imma fece per sedersi ma lei gli urlò di andar fuori, che doveva aspettare. Quando finalmente la fecero entrare il ragazzo era già nel campo con gli altri.

Ogni volta che lo vedeva sembrava che Karim diventasse più grande. Secondo zio Antonio mangiava come un paio di somari ed era altrettanto stupido, ma lui diceva così anche di Imma e lei sapeva di non essere un asino.  Ad ogni modo, in capo a un anno il ragazzo s’era fatto più grosso dello zio e poteva spostare l’erpice a forza di braccia o portare un sacco da un quintale in cima alla scala del granaio. Zio Antonio lo avrebbe voluto in mare con sé - un paio di braccia come quelle sarebbero state una benedizione -, ma Karim aveva conosciuto la cattiveria dell’acqua e si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che salire sulla barca. Imma lo capiva, ché suo padre se l’era preso la burrasca.

Karim aveva imparato un bel po’ di parole e la gente rideva a sentire il suono strano che gli si arrotava in gola quando ripeteva le porcherie di Antonio. Con lei però non parlava mai - non ce n’era il tempo perché appena s’incontravano arrivava zia Assunta con qualche faccenda da sbrigare. Così lui si limitava a guardarla. A volte le sorrideva, e quando lo faceva sembrava un bambino.

Quel giorno lo zio era partito col peschereccio all’alba; prima di sera non sarebbe tornato. C’era da portare in paese la verdura e la zia aveva caricato il somaro fino a fargli piegare le zampe. Imma aveva pensato che sarebbero andate assieme come le altre volte, ma alla fine quella le aveva messo la cavezza in mano raccomandandosi di non farsi vedere prima d’aver venduto ogni cosa. Così lei s’era incamminata lungo la carraia, piena di paura e gioia per essere di colpo diventata grande, e quando l’asino aveva cominciato a zoppicare aveva fatto finta di non vedere. Tornare con le ceste piene voleva dire urli e botte, e niente cena. Poi però la bestia s’era fermata sotto l’ombra di un carrubo, decisa a restarci. Imma l’aveva supplicato e insultato, ma quello s’era limitato a scrollare la groppa per cacciare i tafani. In quel momento era passato Calò, il vicino degli zii - era stato lui a portare la madre di Imma al ricovero quando lei stava per nascere. L’ultimo suo viaggio mamma l’aveva fatto sul biroccio che le stava di fronte.
Spiegò al vecchio cos’era successo e lui sputò per terra. Poi guardò le ceste.
«Pigghia a robba e isala sul carro», le ordinò. 
Quand’ebbe finito Imma fece per salire anche lei, ma Calò le disse di riportare l’asino a casa. Per la roba non si doveva preoccupare, c’avrebbe pensato lui a venderla. Poi il vecchio schioccò la lingua e il birroccio si mosse verso il paese. Imma rimase a guardarlo finché la polvere non si vide più.

Arrivata a casa si fermò a bere al pozzo; era una giornata calda e sembrava ci fossero solo cicale. Nell’attimo di silenzio in cui quelle presero fiato sentì un altro rumore, un lamento da malato che veniva dall’orto. Imma si avvicinò e attraverso le foglie vide Karim inginocchiato. Poi abbassò lo sguardo su zia Assunta, che stava a quattro zampe davanti a lui. Dalla bocca le usciva il mugolio che aveva sentito. Gli occhi li teneva in su, tanto che si vedeva il bianco.  A un certo punto la zia cacciò degli strilli più forti e si lasciò andare sulla terra grassa. Imma guardò il corpo nudo di Karim e il pensiero che zia Assunta fosse morta fu sostituito da un senso di sete e angoscia che la fece scattare indietro. Rimase tra le frasche, ad ascoltare i battiti del suo cuore impazzito, finché non trovò il coraggio di scappare via.

Non parlò con nessuno di quel che aveva visto - pensava che la colpa di quella cosa fosse sua, quasi che tornando l’avesse fatta succedere. Ma poi, ogni volta che li incontrava, ricordava gli sguardi e le parole di zia Assunta, tutte quelle che aveva detto fin dall’inizio. E quando, tornando dal mercato, l’accoglieva l’aria sazia della donna, un nodo in gola le faceva venire da piangere.

Una notte sognò Karim. Nel sogno pareva un grande corvo dalle ali di inchiostro ma Imma sapeva che era lui a portarla in alto, nell’aria che le urlava nelle orecchie e sembrava carezzarla dappertutto.

Poi la sorella di zia Assunta morì, e lei e lo zio dovettero andare al rosario. Zia Assunta avrebbe voluto che il carretto lo conducesse Karim, ma lo zio non avrebbe mai portato un sarracino in paese, figurarsi a una veglia funebre. Allora lei chiese alla moglie di Calò di venire a casa, ché lasciare una ragazza sola di notte non si poteva.
La moglie di Calò, un donnone grasso come un gatto castrato, arrivò alle sette. Abbracciò gli zii e fece una carezza a Imma dicendo che era cresciuta tanto; rimase sulla porta fino a che il calesse non ebbe svoltato la curva, poi aprì la dispensa. Imma la spiava da dietro la porta; quando fu certa che avesse mangiato abbastanza comparve con la bottiglia in mano. Non era certa di quanto laudano andava messo - la zia ne prendeva due cucchiaini -, ma lei per non rischiare ne aveva usati quattro di quelli grossi. Rimasero a parlare finché la donna disse che il vino le aveva messo caldo e si stese sul letto degli zii per arricriarsi[1] un poco. Imma aspettò di sentirla russare prima di correre fuori.

La casupola di Karim era al buio. Oltre a lei, solo i grilli e le rane erano ancora svegli. Si arrampicò sul fico a piedi nudi: la luna illuminava il letto ma lui non c’era. Si sporse per guardare meglio e in quel momento la notte prese la forma di un braccio. Imma vide i suoi denti apparire per incanto e capì che sorrideva.  Poi Karim la tirò dentro.

La prima cosa fu l’odore, un olio sospeso nel buio che faceva girare la testa come il nettare della Lingua di Serpe. Il suo respiro lento le ricordò la risacca che spumava tra le rocce della grotta degli alpazzi[2] - aveva passato una notte intera ad ascoltarla, la volta che se n’era fuggita lì per scappare dagli zii. Lui la toccò e mille scintille si accesero sulla sua pelle prima di diventare incendio. Conobbe il sapore della sua bocca, sorpresa che fosse quello dei sogni che l’avevano tormentata. Quando Karim entrò in lei il dolore e lo spasimo divennero piccole stelle appese al soffitto. Poi la marea che montava le cancellò.

Zia Assunta lo scoprì il mattino dopo. Il suo istinto di amante tradita guardò e annusò dappertutto, tanto che nell’entrare in camera di Imma sapeva già cosa avrebbe trovato. Lei e la mammana la spogliarono a forza, e gridarono e si disperarono al punto che da fuori un bracciante diede voce. Zia Assunta gli disse di correre al molo, a vedere se il marito fosse già tornato.

Il glicine s’arrampicava a più di un metro dalla finestra, ma la porta della sua camera era sbarrata e Imma non ebbe scelta. Così chiuse gli occhi e saltò, aspettando di sentire il tronco sotto le dita prima di riaprirli. La pianta si scosse come se avesse i brividi anche lei, poi la guidò a terra.
Avevano rinchiuso Karim nel porcile. C’era un trave a bloccare l’uscio ma lei lo sollevò.

La grotta degli Alpazzi era come la ricordava. Si stesero sulla pietra umida e fecero l’amore a lungo, perché non sapevano se ce ne sarebbe stato altro. Poi Imma gli disse di aspettarla: sarebbe tornata a casa e li avrebbe fatti ragionare. Non avevano altre speranze.

La picchiarono e la tennero a digiuno ma lei non aprì bocca. Aspettò di essere sola con zia Assunta prima di parlare - le disse ciò che aveva visto quel giorno nell’orto e la guardò scolorare. La sera stessa si convinsero a darle qualcosa.

Non la picchiavano più ma la sorvegliavano. Imma sapeva che se fosse tornata alla grotta avrebbero potuto seguirla, così si mise a pregare. S’inginocchiò e parlò a Gesù come se fosse sceso dal muro di gesso e le stesse di fronte. Chiese di poterci andare senza essere vista. Senza che nessuno se ne accorgesse. Pregò senza altro pensiero e, quando sentì che non avrebbe più potuto continuare senza mettersi a urlare, scoppiò il primo tuono.

La tempesta cominciò come se volesse farsi raccontare dai vecchi del paese negli anni a seguire. La gente corse a casa e chiuse gli scuri, perché il mare non lo si poteva guardare senza sentirsi perduti. Tutti rimasero ad ascoltare le minacce del vento finché non fu ora di dormire. Allora Imma uscì dalla camera e scese la scala. La porta era sprangata - la chiave la teneva lo zio in saccoccia -, così lei s’infilò in cantina e una volta lì spalancò la finestrella. Le raffiche tentarono di strapparla dai cardini, ma Imma riuscì ugualmente a strisciare in cortile.

Davvero qualcuno doveva aver ascoltato le sue preghiere, se era riuscita ad arrivare fin lì. Il vento era un pugnale tra i vestiti zuppi e non riusciva a tenere gli occhi aperti. Dal promontorio vide il fulmine illuminare l’acqua e si stupì di quanto quella fosse vicina. Era come se la collina si fosse abbassata.
Camminò fino alla ripa; il passaggio non si distingueva e dovette aspettare ogni lampo come una benedizione. Annaspando fino al ciglio dello strapiombo cadde più volte sulle pietre bagnate - per il freddo, il dolore cominciò solo dopo qualche passo, là dove la roccia l’aveva morsa.  Era quasi arrivata e ancora non riusciva a vedere la grotta. Un fulmine illuminò la montagna liquida che saliva verso di lei e Imma indietreggiò, la spuma salata che si mischiava alla pioggia nella bocca. Perfino mentre tossiva non riuscì a cacciar via dagli occhi quel che aveva visto. Si sedette su un masso e pianse, mentre il mare sotto di lei continuava a mugghiare.

Era quasi l’alba quando il cielo e l’acqua smisero di lottare. Il tremore che la scuoteva le impediva quasi di respirare, eppure scese di nuovo. Sotto i suoi piedi l’acqua precipitava contro la roccia e un velo di schiuma copriva l’ingresso della grotta. Era ancora troppo buio per vedere, ma appena entrò capì di essere sola. A carponi nelle pozze gelide tastò invano dappertutto, scossa dal freddo e dai singhiozzi.
Poi uscì.

La piccola barca era legata accanto alle altre. Misera e incrostata faceva pietà. Rollò un poco quando Imma scavalcò il bordo; dentro c’erano due remi. Li mise negli scalmi e prese a tuffarli nell’acqua scura del porto. Un vecchio che riparava le reti vide la scialuppa muoversi e urlò, un grido da gabbiano che si smorzò subito.
Sotto la pelle gelata, Imma sentiva i tendini delle braccia bruciare ma continuò a remare fino ad uscire dalla cala. La corrente e il vento muovevano da terra e si ritrovò al largo prima che altri la vedessero. Non pensò neppure un istante a quel che stava facendo e non guardò che davanti a sé, perché il mare era il suo nemico e non voleva sentirlo ridere.

L’alba accese quel riflesso smeraldo che lei odiava tanto. Posò i remi e attese che il sole le sciogliesse i crampi; la barca dondolava lenta, pareva una culla. Imma pensò a sua madre, la donna avvolta nella nuvola di pizzo del vecchio ritratto. Forse viveva nel mare ed era lei a cullarla. Forse era stata mamma ad aver voluto che il babbo la raggiungesse. E per far arrivare anche lei fin lì aveva dovuto rapire la cosa che desiderava di più.
Imma guardò la giada trasparente che la portava: ne aveva avuto sempre così paura da non accorgersi di quanto fosse bella.
Un pesce saltò ma lei non lo vide, sentì il rumore e pensò che fosse un segno, il gesto di qualcuno che la stava chiamando. Si alzò barcollando, come per guardare meglio.
E si tuffò.





[1] riposarsi

[2] gabbiani




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