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Il Paradiso degli Orchi
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ATTUALITA'

Stefano Torossi

Gita alli castelli.

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Gita alli Castelli
Crediamo che il titolo sia poco chiaro. Servirà qualche spiegazione.
Nel 1926 Franco Silvestri scrive la canzone “Gita alli Castelli”, anche nota come “Nannì”, che diventa immediatamente l’inno di quel gruppo di paesetti, una volta vacanzieri, ora densamente abitativi, sulle colline a sud est di Roma, chiamati appunto i Castelli. I primi versi della canzone fanno: “Lo vedi, ecco Marino, la sagra c’è dell’uva; fontane che danno vino, quant’abbondanza c’è”. Marino è il nome di uno dei Castelli. Ma è anche il nome dell’attuale sindaco di Roma, e i versi, spe-cialmente l’ultimo, si prestano mirabilmente a sbertucciarlo.
Piccoli pezzi del puzzle principiano a produrre promesse. Eccole.
Quando ci siamo eroicamente arrampicati fino in Piazza del Campidoglio, il pomeriggio di martedì 17, sotto un cielo nerissimo, richiamati dall’annuncio della mobilitazione generale di tutti i lavoratori dello spettacolo (già il termine “tutti” riferito ad artisti e loro azioni di gruppo è fantascienza), promossa dal comitato delle manifestazioni escluse dall’Estate Romana, ci aspettavamo una gran folla di colleghi. E gran folla abbiamo trovato, che cantava in coro “Lo vedi, ecco Marino…”, ma di altri manifestanti.
Infatti c’erano ben tre proteste contemporanee.
Una, di numerosi, arrabbiati e nerboruti, ma soprattutto compatti lavoratori della Roma Multiservizi (sorveglianza, controlli, pulizie, ecc.) che reclamavano orari e stipendi migliori, occupando la Scala dell’Arce Capitolina dal gradino zero al gradino venti, ed erano quelli che cantavano a gran voce la Gita alli Castelli, per chiamare fuori il sindaco Marino (che non si è visto).
Poi c’era il gruppo che manifestava contro la delibera 148, della quale poco abbiamo capito, se non che decreta la chiusura dei canili pubblici, trasferendo le povere bestie in mani private, il che, a quanto pare, per gli animalisti è una catastrofe. Tanto è vero che il simbolo che esponevano sul selciato del Campidoglio era una cuccia trasformata in cassa da morto. Questi secondi manifestanti, più sobri, non cantavano ma esibivano, oltre alla cuccia-bara, cani al guinzaglio addobbati a lutto e facce lunghe.
E poi c’erano i nostri colleghi; pochi, purtroppo, come ogni volta che c’è da fare qualcosa per la categoria: quattro o cinque a reggere lo striscione in cima alla scala (gradino 22 e 23), sopra la massa unita dei lavoratori della Multiservizi, e poco più di una ventina in piazza, in gruppetti confabulanti, fra cui tentavano di farsi strada grupponi di turisti in transumanza, perplessi da questi tre as-sembramenti mischiati ma visibilmente diversi l’uno dall’altro.
“Italians molto pitoreski” abbiamo sentito bisbigliare da qualcuno.
Prima di scappare di fronte all’acquazzone ormai pronto a esplodere, abbiamo notato che una piccola delegazione dei nostri era stata fatta entrare in municipio. Poi più niente.
Sono anni che siamo delusi dall’incapacità della nostra categoria (anzi, forse sarebbe più giusto chiamarci gregge) di farsi sentire, di fare muro, di rappresentare un interlocutore capace di tenere testa a un’autorità che se ne infischia della cultura, e quindi di noi.
Eppure speriamo sempre che succeda qualcosa di buono. Siamo pazzi? O scemi?

PS. 20 giugno, è arrivato il contentino. Comunicato:
"L’Assemblea Capitolina ha approvato oggi la mozione Di Biase che impegna il Sindaco e la Giunta Capitolina a stanziare fondi aggiuntivi per le manifestazioni storiche dell’Estate Romana e per assicurare l’effettiva realizzazione dei progetti risultati vincitori dei relativi bandi.”
Una caramella per tenere buono il pupo. Perché pare che i fondi supplementari bastino appena per non fare affondare qualcuno, ma non per tenere a galla tutti gli altri. Il problema è che a Roma, oltre all’Assessore, manca sempre qualcosa per capire cos’è, e soprattutto a cosa serve la cultura.


Teatrus interruptus
E’ successo allo spettacolo di apertura del Festival di Villa Adriana che avremmo voluto vedere, mercoledì sera: “Verso Medea”di Emma Dante.
Prima, sì; poi, forse; alla fine, no. La pioggia.
Insomma, ci siamo fatti quei trenta infernali chilometri di Via Tiburtina, ci siamo presi un consolante bicchiere di vino (niente Negroni in zona archeo) al baretto dell’ingresso, siamo saliti alla Villa, abbiamo raggiunto le Grandi Terme, ci siamo ammucchiati all’ingresso delle tribune…e poi ha cominciato a caderne troppa per andare in scena.
Peccato. Ma i lampi, i tuoni e il tramonto tempestoso sui ruderi erano comunque uno spettacolo che meritava il viaggio.
Se il tempo ridiventa estivo, come dovrebbe, il festival va avanti. Noi ci saremo.






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