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Stefano Torossi

JEAN-PHILIPPE RAMEAU 1683 – 1764

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“Per gioire pienamente degli effetti della musica bisogna essere in un puro abbandono di sé stessi” J. P. Rameau.
Caspiterina! Un’osservazione densa e pregnante.
Jean-Philippe, è il settimo degli undici figli di un organista che per prima cosa comincia a insegnargli la musica ma a lui le lezioni paterne non piacciono per niente, anzi le trova noiose e pesanti, tanto è vero che le rifiuta e si dedica alla scrittura.
Per fortuna si accorge presto di non avere nessun talento letterario e torna alla musica, ma stavolta senza l’aiuto di papà. A un certo punto si fa un viaggetto in Italia, obbligatorio per un ragazzo del ‘700 che voglia farsi una cultura; ma non va più in là di Milano.
A Parigi gira parecchie chiese della città come organista titolare. Poi lo troviamo direttore dell’orchestra privata del suo mecenate Alexandre Le Riche de la Poupliniere (nomi più sobri all’epoca non li volevano) nel cui palazzo abita per ben dieci anni, periodo nel quale trova il tempo e l’occasione di fare amicizia e di collaborare con Voltaire.
Ha cinquant’anni (all’epoca a cinquant’anni si era vecchi) e ancora non ha pubblicato quasi niente: qualche cantata, qualche mottetto e tre raccolte di musica per clavicembalo. Per ora è noto, rispettato e seguito solo come teorico. Il paragone con Vivaldi, Bach, Haendel che a quell’età avevano già scritto quasi tutto è imbarazzante.
Ma finalmente nel 1733 riesce a mettere in scena l’opera “Hippolyte et Aricie”. Clamore, successo e notorietà improvvisi, soprattutto fra i critici, uno dei quali scrive “C’è abbastanza musica in questa opera per farne dieci. Di questo passo eclisserà tutti”.
Forse perché è troppo avanti, Rameau è costretto a rivedere la partitura: alcune arie sono talmente all’avanguardia che i cantanti le trovano ineseguibili. In ogni caso, la stima che deriva da questo successo gli procura il posto di compositore alla corte di Luigi XV.

In tutta la sua carriera di autore di più di trenta opere non fa altro che cambiare i librettisti; è troppo esigente e poco accomodante, è irascibile, violento e pare anche che sia un gran tirchio, quindi li vuole bravi ma economici, i suoi collaboratori.
A proposito del suo caratteraccio si racconta che a una prova, irritato dalle troppe libertà che si prende il direttore d’orchestra, gli chiede di prestare più attenzione alla partitura. Il direttore stizzito se ne va sbattendo la porta. Non prima di essersi sentito urlare da Rameau: “Io sono l’architetto di questo lavoro; voi siete solo il muratore che deve eseguirlo!”. Possiamo immaginare la serenità dei suoi rapporti, passati e futuri con i collaboratori.
Nel ’52 esplode la “Querelle des bouffons”, una accesa polemica fra due partiti di musicisti e teorici: lui da una parte e Jean-Jacques Rousseau dall’altra, l’uno in rappresentanza della “tragedie en musique” francese, l’altro dell’opera buffa italiana. Una delle idee irrinunciabili di Rameau, combustibile sul fuoco di questa polemica, è che nell’istinto dell’uomo e nella natura dei suoni l’elemento primo sia l’armonia e non la melodia, come invece sostiene Rousseau; quindi è l’armonia che regge tutto l’edificio della musica e non la melodia che ne è solo un puntello.
Discussioni accese, litigate feroci, schiaffoni e duelli.
Rousseau, enciclopedista, filosofo, scrittore, pensatore, compositore e perfino librettista di sé stesso (caso eccezionale per l’epoca) nell’opera “L’indovino del villaggio”, pare che ci tenesse moltissimo ad affermarsi anche come musicista, senza peraltro mai riuscirci del tutto. Uno smacco durato una vita e, come risultato, probabilmente un carattere pieno di spine.
Dopo la sua morte le sue composizioni per clavicembalo e le sue numerose opere, oggi considerate di fondamentale importanza per la teoria e la storia della musica, scompaiono dal repertorio forse perché troppo difficili, troppo teoriche, magari al di sopra della portata del normale pubblico ignorante. Rameau diventa un pezzo da museo e lo rimane per un bel po’ ricoprendosi lentamente di polvere. Fino al recente, parziale recupero.
Quello che è rimasto sempre attuale sono, insieme a qualche balletto e ouverture, alcuni brevi ma gustosissimi pezzi di musica descrittiva (grazie anche alla trascrizione per orchestra che ne ha fatto in seguito Respighi, maestro del genere), campione dei quali è “La Poule”, una delizia di poco più di tre minuti di trilli e acciaccature che rifanno il verso alla gallina.

Dopo tanti anni di servizio presso Monsieur de la Poupliniere, Rameau litiga anche con lui, ma ormai non ha più bisogno di un mecenate, e se ne va ad abitare con la moglie (il suo è un matrimonio longevo e felice) e i figli in un appartamento di sua proprietà in Rue des Bons-Enfants, dal quale esce ogni mattina per una passeggiata solitaria nei giardini delle Tuileries, dove talvolta incontra l’amico scrittore Chabanon che annota alcuni dei suoi pessimistici pensieri: “Giorno dopo giorno acquisto buon gusto, ma perdo genialità” oppure “Non è saggio per una vecchia testa senza più immaginazione come la mia esercitare un’arte che è solo immaginazione”.
Pochi giorni prima del suo ottantunesimo compleanno, sul letto di morte, al prete che gli canta un salmo grida: “Cosa diavolo stai cantando, prete? Sei pure stonato!” e lo caccia.

Rameau è sempre stato un uomo solitario e riservato, tanto è vero che di lui sappiamo poco. Pur essendo notoriamente avaro, ha aiutato quando poteva i colleghi meno fortunati. Si è sempre portato dietro pochi malridotti vestiti, un solo paio di scarpe e gli stessi vecchi mobili, fra cui un decrepito clavicembalo che gli è molto caro.
Dopo la sua morte però gli trovano in casa un sacchetto con 1.691 luigi d’oro.
Una piccola fortuna.





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