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CINEMA E MUSICA

Stefano Torossi

La Musica Contemporanea

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18 novembre, concerto di apertura del Festival di Nuova Consonanza. E' il quarantottesimo. Una bella grinta da parte loro, e gratitudine da parte nostra perché è quasi mezzo secolo che ci portano cose nuove da ascoltare.

In programma tre composizioni per quartetto d'archi: Cage, Fedele, Reich. Quartetto Prometeo, eccellente. Interessanti le musiche, ma qui, come spesso con la Musica Contemporanea viene fuori il problema. Oltre a interessare, può un brano di MC piacere? Ecco, la risposta può essere, al massimo "forse". Perché dopo anni di ascolto, curiosità e tuffi nella sperimentazione ci accorgiamo che per poter dire che un brano ci è piaciuto dobbiamo trovarci dentro la canzone. Termine usato preci-samente a scopo provocatorio. Vogliamo dire che per ricordare una musica (insieme all'emozione che ci ha dato) dobbiamo poterci aggrappare a una melodia, a uno schema armonico, a una cellula ritmica, insomma a qualcosa di riacchiappabile, magari non per fischiarlo sotto la doccia, ma almeno per ricostruircelo in testa.

Il brano di Reich si intitola "Different trains" e nelle note di presentazione ci ha colpito una frase spiritosa dell'autore, ebreo: "Negli anni trenta-quaranta, da bambino in USA ho molto viag-giato in treno, e ora che mi guardo indietro penso che se fossi rimasto in Europa in quel periodo avrei dovuto viaggiare su treni molto differenti"

E' possibile che questo nostro modo di vedere, o meglio, di ascoltare appaia incolto, ma è co-munque sostenibile. In fondo, in tutta la musica, classica e non, i brani che rimangono sono quelli che hanno dentro un tema. O anche solo un qualcosa di memorabile. Prendiamo le due note iniziali, di cui la prima ribattuta tre volte, della Quinta. Cosa c'è di più riconoscibile e universale, anche se non è propriamente un tema? Era addirittura la chiave di apertura di Radio Londra durante la guerra.

Nel concerto successivo, abbiamo ascoltato, fra le altre, la composizione di Ada Gentile, "Una memoria nell'ombra", cupa, quasi lugubre, con il violoncello che bramisce come un cervo ferito. Questo ci piace, l'uso degli strumenti irrispettoso dell'accademia. Naturalmente non sempre riesce bene, questa volta sì; ma vale comunque la pena di ascoltare i tentativi.

Nell'organizzazione dell'evento, una trovata intelligente: buio in sala fra un brano e l'altro per togliere d'imbarazzo gli ascoltatori che altrimenti non sanno mai quando il pezzo finisce.

Nella stessa serata ci ha stupito l'operina di Lucio Gregoretti "Cara Italia, alfin ti miro", su li-bretto, o meglio, su testo di Giorgio Somalvico. Molto divertente, e non è facile davvero poterlo dire di una composizione contemporanea. Lo abbiamo già con piacere constatato ascoltando un altro lavoro dello stesso autore. Una musica arguta, leggera ma sparsa di citazioni piazzate a proposito, su un testo altrettanto gustosamente in equilibrio fra orpelli ottocenteschi e banalità attuali.







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