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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Elena Ferrante

La figlia oscura

E/O, Pag. 141 Euro 14,50
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Molti anni fa due psicoanalisti svizzeri, Charles Odier e Germane Gueux, introdussero un termine per designare un quadro clinico in cui predominano l'angoscia del distacco e il bisogno di sicurezza: la nevrosi d'abbandono.

Caratteristiche specifiche degli individui, chiamati "abbandonici", sono l'angoscia, l'aggressività, il masochismo e il senso di non valore e alla cui base c'è un bisogno illimitato di amore, soprattutto amore da parte della madre.

Involontariamente o no, nei romanzi della Ferrante (I giorni dell'abbandono porta nel titolo già i segni e L'amore molesto non è da meno) aleggia questo senso della separazione che irrompe poi in modo violento nelle successive fasi della storia. La figlia oscura è una storia nevrotica (proprio nel senso psicoanalitico di cui sopra) dove i piccoli gesti, le piccole azioni alla fine determinano una frattura insanabile con la realtà. Nel caso specifico il furto di una bambola (più che furto, l'occultamento del giocattolo) innesca una serie di eventi che trova "facile" compimento nelle pagine finali.

Leda è un'insegnante di letteratura inglese, divorziata da tempo e con due figlie. Le ragazze partono per raggiungere il padre in Canada. La donna, per nulla imbarazzata dal senso di leggerezza che le ha procurato la partenza, decide di prendersi una vacanza al mare in un paesino del sud. Qui fa la conoscenza con una famiglia poco rassicurante che la trascinerà in eventi minacciosi e inquietanti.

Non aggiungo altro per non guastare il piacere della lettura. Mi preme aggiungere che la trama procede per scatti, mi si perdoni l'ossimoro, controllati, con una scrittura che scivola lieve e mai affaticata, piana nella sua fattezza artigianale (semmai dovessi fare un appunto alla Ferrante, le chiederei il perché di una "famiglia del sud" così scontata, seppure molto reale nella sua rappresentatività, ad un passo dalla figurazione oggettivamente faziosa).

Ma è altro ancora che mi sta a cuore. Anni fa mi sono imbattuto in un saggio sfizioso e provocatorio di un'insegnante americana: Camille Paglia. Nel suo Sexual personae (Einaudi, 1993) oltre all'aspetto più meramente decadentistico dell'arte l'autrice metteva il dito sulla differenziazione emotiva tra l'uomo e la donna (e quindi di conseguenza tra l'artista uomo e l'artista donna). L'uomo, inorridito dal suo debito verso una madre fisica, si è creato una realtà alternativa, un eterecosmo che gli renda l'illusione della libertà. (...)Ancora oggi sono più spesso gli uomini che non le donne a rivendicare la superiorità della logica sulle emozioni. Comicamente tendono a farlo proprio nei momenti di massimo caos emotivo, che essi stessi possono essersi procurato e che poi sono incapaci di arginare.

E' proprio qui il punto: perché mai (e riduco la problematica al solo aspetto della narrativa) lo scrittore, pur se diviso tra razionalità e sentire, trova uno sbocco alle sue ossessioni, mentre la scrittrice pur non essendo costretta a dimostrarsi donna nella maniera spietata in cui l'uomo è costretto a dimostrarsi uomo, non riesce ad uscire dal pantano delle sue emotività?

Lo confesso: la scrittura al femminile non mi ha mai convinto, anche di fronte a vere e proprie istituzioni del paese (leggi: Morante) proprio per questa autocensura, quasi punitiva e masochistica, di dover rappresentare un mondo diverso (ma non si sa diverso da cosa).

La Ferrante, pur nella grazia e nell'attitudine certosina a costruire una ragnatela che impigli il lettore (mi verrebbe di paragonarla a Patricia Highsmith), cade nel tranello dell'omologazione. Non si distacca da questo senso di appartenenza tutto femminile ad un reale fatto di straripante ipersensibilità: ma i risultati pur se eleganti e lucidi, convincono a metà.

Il successo mondiale della scrittrice è un segno dei tempi. O forse è il segno che ho torto nel differenziare le scritture. Ma sono pronto a ripartire da capo e a convincermi che sbaglio.



di Alfredo Ronci


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