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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Leonardo Tonini

Le parole e la bellezza

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Sollevai la testa dalla rivista. Lui non poteva essere più scuro in volto, guardava fisso in terra. Mugugnò un saluto e mi passò davanti senza fermarsi.

Ero felice di trovarlo in casa e, nel medesimo tempo, provavo vergogna. Se ne stava sulla poltrona, nella sua posa abituale. I pantaloni di lino larghi, molto larghi e sformati, e a torso nudo. Il nostro appartamento era molto caldo in quella stagione. Non per questo lui rinunciava alla palestra, sentivo odore di sudore, il suo odore.

Me ne rimasi un po’ a pensare cosa dovessi fare. Alzarmi e andargli incontro, o lasciare che fosse lui a venire da me? Lo sentii andare in bagno e poco dopo tirare lo sciacquone. Mi passò davanti ancora con lo sguardo corrucciato e senza parlare. Entrò nella stanza degli attrezzi. Meglio non intervenire, pensai.

Non volevo metterlo in imbarazzo, ma lo sconforto era più forte di me, non riuscivo a fingere. Il suo torso emergeva dal lino bianco dei pantaloni con il suo atlante di muscoli tesi e lucidi per il caldo.

Tutta quella oscurità in volto metteva tenerezza. Era più o meno così la prima volta che lo vidi. Al circolo Paolo Aleandri, al solito tavolo. Da solo. Mi sono avvicinato e mi sono seduto di fronte a lui senza chiedere niente.

Vorrei avere il suo carattere. Il suo carattere è come il suo fisico, atletico e solido allo stesso tempo. Alto, slanciato, portato verso gli altri, gli occhi chiari. Larghe le sue spalle, lunghe le sue gambe. I movimenti sicuri e senza arroganza. La cosa che mi è sempre parsa strana è che fu lui a vedermi prima che io lo distinguessi dalla massa.

Forse non è quello che si dice un bel ragazzo, ma la sua presenza un po’ truce all’interno del locale, mi colpì subito. Se ne stava solo senza essere solo. C’erano altri solitari, ma erano patetici nella loro condizione di forzati della disponibilità.

Apprezzai la mossa di accomodarsi al mio tavolo senza chiedere il permesso. Quello che ci piace dobbiamo prenderlo, senza chiedere. Mi sfuggì un sorriso. Non nego che il mio orgoglio gradì la situazione. Era davvero un bellissimo ragazzo, un bellone. Avevo dei pregiudizi verso questa specie di fotomodelli, ma i suoi occhi esprimevano intelligenza.

Cominciammo subito a parlare saltando preamboli e cortesie ipocrite. Non chiesi il suo nome e lui fece altrettanto. Quella prima volta successe una cosa curiosa. Ero abituato a ricevere proposte, non ero andato con quello spirito, ma lui non me ne fece. E a un certo punto mi disse, Piacere di averti conosciuto, ora però devo andare. Raccolse le sue cose e mi fece un cenno con la testa a mo’ di saluto.

Mi sistemai, feci molto bilanciere e addominali, dovevo calmare lo stomaco. La stanza era davvero calda, ma la mia rabbia era a una temperatura più elevata. C’erano i pesi, la panca dove stavo io e una macchina multi attrezzi. Alle pareti avevamo messo i poster dei nostri miti: Mishima, la Fallaci, Céline con il gatto Bebert. Dopo qualche minuto, venne da me. Si fermò sulla soglia, si appoggiò allo stipite, aspettava che gli dicessi qualcosa.

Sono sempre più convinto che sia stata la mano del destino a pilotare il nostro incontro al circolo. In lui ho trovato tutta la cultura e l’apertura mentale che cercavo. Ben presto gli altri avventori ci vennero a noia. Il nostro spirito si fortifica tra le ingiurie degli stolti, ma fiorisce con le parole dei migliori, mi disse.

Gli parlai del mio piano, provavo una istintiva fiducia nei suoi confronti. Quel primo gesto me lo rese caro fin da subito, aveva superato i pregiudizi. Da allora e fino a oggi non sono mancate le prove a conferma di quanto avevo intuito. Ma ben presto non servirono più nemmeno le prove.

Gli altri erano così stolti, volevano mettere a morte i gay. Una paura del sesso la loro. Si bevevano le storie che andavano bene per la massa. Non distinguevano le checche dagli omosessuali. Non sapevano niente della corte di Lorenzo il Magnifico o dei gerarchi di Hitler. Anch’io vivevo nell’ignoranza, ma cercavo una guida. Molte cose le intuivo, ma non trovavo le parole. Leggevo molti libri, ma disordinatamente, mi mancava chiarezza, una teoria. Quando lo incontrai, ben presto capii che quello che avevo trovato erano le parole.

Ci esaltavamo a vicenda, avevamo lo stesso sogno. Un mondo di spiriti perfetti, guerrieri, maschili. Morte agli inferiori che infestavano la razza umana, morte alla plutocrazia giudaica massone, morte agli ebrei, agli zingari, alle checche.

Con “morte alle checche” lui intendeva morte al femminile, a ciò che è debole, impuro. Non poteva sopportare i froci, i finocchi. Uomini che andavano in giro scimmiottando le donne. Non parliamo poi di quegli errori metafisici chiamati transessuali.  

Noi dovevamo essere i puri, l’avanguardia di un nuovo modo di intendere, di sentire. Lui mi guardava rapito, con quei suoi occhi freddi ed espressivi. Il circolo intanto era diventato troppo rumoroso per noi. Non sopportavamo l’aria di quel locale, ormai facevano entrare tutti. Persino i fascisti si erano imborghesiti, tutti figli di papà. Mi portò da lui.

In macchina smise di parlare. Solo più tardi capii – anzi fu lui a rivelarmelo – che l’emozione quasi lo strozzava. Io guidavo con impazienza, non sapevo che dire. Avevamo un universo di idee da raccontarci, eppure non sapevo che dire. Con le mani stringevo il volante, non volevo correre, ero così eccitato che se avessi lasciato andare il mio desiderio, ci saremmo schiantati per la velocità.

Quando vidi le sue mani tremare nel mettere la chiave nella serratura, provai qualcosa di doloroso premere le ossa del costato. Dentro scivolammo in un delirio non premeditato, ma atteso. Non riuscimmo a raggiungere nemmeno la stanza da letto, ci buttammo sul tappeto davanti al divano. Erano finite le chiacchiere, eravamo solo corpi.

Dopo un po’ di tempo mi trasferii da lui. Non subito, avevo già convissuto e non era stato facile, avevo qualche riserva. Ma una sera, ero a casa da solo, mi chiesi cosa davvero volessi e gli telefonai perché mi aiutasse con il trasloco.

Durante il trasloco si sbarazzò di una quantità di robe. Gli dicevo, Questo puoi tenerlo, E anche questo, ma lui non mi ascoltava. Il passato è un macigno, se non lo si butta, rimane sulle nostre spalle, disse.

Smisi con gli addominali. Lui mi aspettava, ancora appoggiato allo stipite, e alla lunga mi sarebbe sembrato di mancargli di rispetto. Lo guardai. Non è andata bene? mi disse. No, non era andata bene.

Con la convivenza il nostro idillio si rafforzò. Procedeva su due binari: l’esplorazione fisica e la costruzione delle nostre idee. Venne il giorno che prendemmo una decisione, i nostri ideali erano così maturi che si poteva passare alla fase politica, all’azione.

Avevamo fondato un’associazione, una lega: Ubi Maior. Il piano era di trovare adepti, crescere, fare azioni dimostrative, scrivere proclami, armarci. Fu allora che mettemmo i poster. Mishima ci guidava con il suo coraggio, Oriana con la sua durezza, Celine con l’intelligenza.  

A parte l’entusiasmo, non avevamo appoggi, non sapevamo nemmeno da che parte cominciare in realtà. Come si fonda un movimento politico? Come si parla alle persone? come si diventa attraenti? Ma questo, invece di spaventarci, ci esaltava. Il mondo era agli inizi, le cose non avevano ancora un nome.

Fu la nostra rivoluzione, eravamo posseduti, pieni di forza. L’onda del nostro entusiasmo avrebbe presto contagiato il Mondo. Eravamo i puri, i sacerdoti di un nuovo afflato per il genere umano. Sognavamo una Terra dove le razze non si mischiavano, dove solo gli spiriti puri potessero camminare eretti.

Lui insisteva con l’estetica, solo il bello è buono, diceva. È il buono che deriva dal bello, e il bello non è morale, è Natura. La Natura seleziona i forti e sceglie in base alla bellezza. Io, all’inizio, non capivo.

In lui avevo trovato la bellezza. Il suo corpo era il corpo che non ho potuto avere, certe volte la sua pelle era tutto l’universo. Ne esploravo le regioni, le montagne e le colline dei muscoli, le fessure, i tendini. Mi inebriavano le sue mani forti come antichi aratri e allo stesso tempo preziose e delicate.

Questa faccenda lo addolorava. Il fatto cioè che gli altri confondessero le checche con gli omosessuali. Ogni volta la stessa scena: le nostre idee raccoglievano consensi, specie negli ambienti della destra che frequentavamo, ma appena sentivano odore di omosessualità, se la davano a gambe. Vedevi in loro tutti i segni del panico.

Per lui era solo questione di avere pazienza, di perdurare nelle nostre idee. Tutto si sarebbe aggiustato, diceva. La verità prevale. Era molto ottimista, sereno. Io vedevo in questo suo atteggiamento la sua superiorità. Le brutture gli scivolavano addosso senza oltraggiarlo. Il suo animo era invincibile come il suo corpo.

Sono sempre stato attratto dai maschi. Non ricordo di conflitti. Alle elementari non stimavo le femmine, poi alle medie vidi i miei compagni a uno a uno diventare scemi dietro alle ragazze. In me questa trasformazione non avvenne, l’eterosessualità mi sembrava una farsa. I maschi venivano da me di nascosto per avere degli incontri sessuali. Le femmine parevano tutte in foia, ma erano attirate solo dal mio aspetto, per farsi vedere dalle amiche uscire con il bello della scuola.

I più grandi guerrieri erano omosessuali. Achille e Patroclo, Epaminonda, l’intero Battaglione sacro di Tebe. Da Alessandro il Macedone fino a Lawrence d’Arabia, i più significativi soldati della storia umana erano uomini che amavano uomini. Dall’omosessualità guerriera nasce l’Ethos dell’occidente.

Lo amavo. La sua convinzione, il suo essere schiavo delle sue idee. Il suo essere solo contro tutti. La sua sofferenza davanti a un mondo che lo respingeva. Non siamo di questo tempo, diceva. Una sola volta mi sentii offeso dalle sue parole, Mi dispiace di averti coinvolto nei miei deliri, disse. Gli mollai uno schiaffone.

A volte mi veniva voglia di mollarlo. Sii libero, meriti qualcuno di migliore di me. Tu puoi. Vai, afferra la vita con le tue possenti braccia, sii all’altezza del tuo corpo, del tuo spirito sereno come una divinità greca. Io ti sono solo di peso.

Vieni di là, gli dissi, ho un regalo per te. Lui mi guardò sorpreso e si alzò. Vedevo sul suo volto il segno della commozione. Solo il pensiero che mi fossi ricordato di lui, toccava la sua sfera emozionale. Io l’avrei coperto ogni giorno di regali, per fargli capire che pensavo a lui in ogni momento.

L’involto stava sul tavolo, non era agghindato come un regalo, ma aveva intorno la carta della lavanderia. Una gruccia in metallo che sbucava da un lato tolse ogni restante dubbio. Spiegai la carta e il primo lembo di tessuto mi fece trasalire.

L’avevo trovata su un mercatino, la controllai perché non fosse un’imitazione. Era molto costosa, non avremmo potuto permettercela, ma lui diceva che il denaro è una invenzione giudaica, che nel mondo che si prospettava ai nostri eredi il denaro non sarebbe esistito.

Ero stato licenziato, e non era la prima volta. Era lui a mandare avanti l’abituro nel quale ci trovavamo. Questo era causa di sofferenza per me. Ora quella divisa nelle mie mani e l’odore di naftalina che si spandeva nell’aria…

È della tua misura, dissi.



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