RACCONTI
Leonardo Tonini
Notizia sui recenti avvistamenti a Soncino
Per la tesi avevo trovato nel professor Villagrossi qualcuno che mi desse ascolto. Come si diffonde una fissazione a livello sociale? Un delirio? Come nasce una leggenda urbana? Io al tempo dell’università avevo poche e confuse idee in testa, ma ero facile all’entusiasmo e forse quel mio giovanile ardore influenzò la valutazione del docente sulle mie possibilità. Questo però non gli impedì di mettere dei paletti ben chiari. La tesi è una tesi; le teorie generaliste sono il nemico da battere in sede di ricerca. Il metodo scientifico vuole che noi si parta con la volontà di smontare una certa teoria piuttosto che con l’idea di sostenere quello che ci pare ovvio, e di cui vogliamo, in definitiva, convincere gli altri. Quindi?, chiesi. Quindi lei, signor Tonini, non mi dovrà parlare di grandi scenari. Prenda esempio da Carlo Ginzburg, si concentri su un caso vicino a lei, del suo paese.
Sentii la nausea prendermi lo stomaco. Il mio paese era per me a quel tempo il cimitero popolato di zombi da cui avrei voluto scappare. Ma io vengo da un paese morto da generazioni!, dissi. Il lavoro dello storico è, a rigore, quello di parlare con i morti, disse il professore; forse questo è quello che vede lei perché l’ha sempre valutato (a priori) come un paese morto. E quindi, giocoforza, ha sempre cercato prove a sostegno di questo suo modo di vedere. Si dia da fare, disse congedandomi, e torni da me con un soggetto interessante.
Altro che entusiasmo, me ne andai afflosciato! Il mio paese, Soncino, era per me l’emblema della sconfitta spirituale dell’umanità. La gente si era ritirata in quel paese per morirvi. Apparentemente, viveva, faceva figli, costruiva case e andava a messa, ma qualsiasi ipotesi sull’esistenza di qualcosa che si discostasse dalla mera perpetuazione delle incombenze quotidiane, era bandita dai cervelli della popolazione. Io allora avevo pochi anni sulle spalle, ma vedevo mia madre, per esempio, andare in visibilio per il fenomeno televisivo del momento e crederci ciecamente, fino a che la sua infatuazione si trasferiva al nuovo soggetto televisivo (e in questa categoria ci mettevo anche i politici) senza avere nessuna memoria di ciò che le aveva scaldato il sangue fino a qualche mese prima. Una assenza di memoria che era comune a tutti i soncinesi che mai avessi incontrato e conosciuto. Solo il vecchio Aldo, a dire il vero, pareva immune da questa sorta di sortilegio che ammorbava l’aria. Il vecchio Aldo e io. Lui che bestemmiava le sue analisi in perpetuo, che nessuno ascoltava, e io che avevo affrontato l’università come grimaldello per fuggire dalla mia prigione.
Tornato a casa nel fine settimana (perché pur sempre facevo il ribelle sul libro paga di mio padre) capitai nel bar del paese. Non avevo uno scopo, mi annoiavo e avevo voglia di un caffè. Mi sedetti e mi misi a sfogliare il giornale locale. Mi cadde l’occhio su articolo: UFO nei cieli sopra Soncino. Presi a leggere avidamente. L’articolo fra altre cose diceva: “L’episodio più significativo si è, però, verificato giovedì 22 settembre nella zona di Soncino, il bel borgo medievale famoso per la sua rocca viscontea, in prossimità del fiume Oglio. A raccontare nel dettaglio quanto ha visto è un ingegnere elettronico, residente in paese e stimato professionista: “Stavo andando al lavoro all’incirca alle 6,30 di mattina e percorrevo in auto la statale in direzione di Orzinuovi. In quel momento ho visto una luce molto forte, a forma di rombo, sulla sinistra in alto. Dopo averla osservata con curiosità per alcuni secondi, con la netta impressione che fosse ferma, all’improvviso è schizzata via a velocità impressionante. Sono certo che non si trattasse della stazione spaziale che in questo periodo dell’anno si può osservare come luce fissa in cielo nelle ore prossime all’alba.”
La noia mi si girò in speranza, poteva essere una traccia. A cena chiesi ai miei che presero allegramente a sfottermi. Ufo a Soncino ce n’erano sempre stati, tutti che li hanno visti. Cagate, le definì mio padre. La gente si annoia e vede gli ufo ovunque, sono satelliti o altre robe. Mia mamma intervenne, beh, c’è la storia della Graziella. Ah, allora siamo a posto! È vero, la Graziella, dissi io, mentre mi tornavano alla mente ricordi confusi. Com’è la storia di questa Graziella? Mah, va a sapere come è stata. Lei era stata rapita negli anni ‘80. A quel tempo i rapimenti di persone erano frequenti, rapivano un sacco di gente. La mafia, i brigatisti; per chiedere un riscatto o altro. I più finivano liberati nel giro di poche settimane. Li tenevano i pastori in Gallura o sull’Aspromonte. E lei era figlia di un industrialotto di paese. Era gente che stava bene, disse mia madre. Mah, riprese mio padre, sono altri quelli che stanno bene. Quello, il Maggi, aveva qualche fatto qualche soldo perché da ragazzo lavorava come centralinista e si ascoltava tutte le telefonate, e quindi sapeva tutto di tutti. Poi aveva rilevato un’azienda e si barcamenava. Era un trafficone.
E poi? E poi niente, forse uno a cui aveva pestato i piedi, gli aveva fatto rapire la figlia e gliel’ha ritornata dopo qualche tempo, ovviamente gravida e, in più, fuori di senno.
Ma non era quella che girava in paese sempre col casco? chiesi. Sì, lei; girava con il casco in testa perché se no, diceva che gli alieni le rubavano i pensieri.
Sorrisi un po’ sconcertato. Dietro una che avevamo sempre preso in giro ai tempi della scuola, si nascondeva una tragedia personale. Chiesi: ma com’è che da una povera pazza che vede gli UFO, adesso tutti li vedono?
Ma sì, la gente non ha di meglio da fare. Uno vede una luce in cielo, lo racconta al bar, un altro tira fuori la storia della Maggi e il terzo sulla via di casa, con qualche birretta in corpo, ecco che ti vede gli UFO pure lui.
Anche tuo papà li ha visti!, disse ridendo mia mamma. Ma sì, cagate, una volta ero lì sull’argine e ho visto queste luci che, vabbè, mi ero preso una bella strizza, ma va a sapere che diavolo erano.
Racconta. Ma sì, è successo un sacco di anni fa, tu eri alle elementari. Era di notte e mi è comparsa sta luce in cielo, un’astronave, cioè non so proprio che diavolo era, ho pensato a un’astronave, ma vabbè, non ci ho mai creduto. Una luce a forma di rombo.
Nei giorni seguenti, cercai informazioni su internet. Alla ricerca su Altavista (non esisteva ancora Google) “Avvistamenti UFO in Italia” saltò fuori un eccesso di materiale. Scoprii che gli avvistamenti erano anche di Gnomi, Fate, Fantasmi e Madonne, ma quelli decisi di tralasciarli per il momento. Quello che compresi ai fini della mia ricerca era che A) gli avvistamenti erano andati calando in Italia dagli anni ’50 venendo in qua; B) gli ufologi amavano rinchiudersi in gruppi piuttosto chiusi per passarsi notizie, millantare complotti ai loro danni e smontare spiegazioni di gente malevola e interessata che prendeva il nome generico di scienziati; C) che, sempre secondo questi ufologi, gli unici ad avere le prove erano i militari e gli unici a sapere la verità erano loro stessi; D) che gli ufologi amavano raccattare citazioni di uomini importanti che confermavano le loro teorie: Jung, Kary Mullis, Platone, il profeta Ezechiele… e E) che mai neppure per scherzo a questi signori passava per la testa l’idea di mettere in dubbio quello che andavano scrivendo sui loro blog.
Il fine settimana successivo, di nuovo a casa dai miei, a Soncino, decisi di muovermi sul territorio alla ricerca di indizi. Altri sapevano di queste storie di UFO? Decisi di dire che stavo facendo una ricerca per conto dell’Università sugli avvistamenti e di evitare di dire che in realtà la ricerca era sul come fosse possibile che la gente credesse a simili baggianate. Come mi aveva consigliato il Villagrossi, presi il libro di Carlo Ginzburg e studiai il suo metodo di lavoro. Caspita, mi dissi, questo è un gigante del pensiero! Ogni pagina era illuminante, smontava uno dopo l’altro i miei schemi mentali. Il mio prof aveva ragione, noi ci facciamo delle convinzioni e cerchiamo di convincere gli altri e noi stessi della nostra ragione, senza un minimo di fondamento scientifico. Ma Ginzburg andava oltre: diceva che sostenere che una cosa è scientifica è la prima scusa che ci inventiamo per avvalorare la nostra ipotesi. Credere che sia scientifico non è scienza.
Il primo che volli contattare fu il giornalista dell’articolo, tal Saccomanno. Il che fu piuttosto facile perché faceva l’impossibile per farsi conoscere, seminava mail e numeri di telefono praticamente ovunque. Era un personaggio noto in paese, non stimato, ma noto. Ci accordammo e venni a casa sua. Mi subissò di parole. Lo temevo, ma non credevo fino a quel punto. Partì con un’aria molto contrita e sostenendo, tra infiniti preamboli, che la mia era un’indagine rischiosa, che lui mi diceva quelle cose in via confidenziale, e che fosse meglio per tutti, e per me in particolare, non rivelare niente a nessuno. Arrivò a chiedermi se fosse stato il mio professore a mettermi su quella strada. Dissi di no, che lui mi aveva solo invitato a occuparmi di storia locale, ma ancora non sapeva che stavo indagando sugli UFO. Quindi il tuo professore non sa nulla su questa cosa? Ancora no. Se vuoi un consiglio, disse, cambia argomento. Io so come funziona: vedrai che appena ci vai a parlare, lui ti dirà di lasciar perdere e in un modo o nell’altro ti metterà nella condizione di cambiare strada.
Tra molte reticenze e dettagli inutili, arrivò a dirmi che a Soncino succedevano cose che era meglio non si sapessero. Del tipo? chiesi. Sinceramente, mi disse, non ne voglio parlare, potresti prendermi per pazzo e questo sarebbe il meno; potresti anche credere a quello che ti dico e ti metterei in pericolo. Chiaramente, moriva dalla voglia di raccontarmi questo segreto. Visto che ormai avevo capito la psicologia del personaggio, decisi di giocare la mia carta. Si tratta forse della signora Maggi? Lui fece un’aria se possibile ancora più seria. Che cosa sai tu? Mi hanno detto che è stata rapita da dei banditi molti anni fa e che non si è più ripresa e crede di essere stata rapita dagli UFO o qualcosa del genere. Il giornalista mi guardò beffardo. Una spiegazione che mette tutti a tacere, disse fiero.
Riconquistata la libertà, dopo molto soffrire da parte delle mie orecchie, potei riassumere il segreto di Soncino in una sola frase. Graziella Maggi, anni 17, rapita il 26 luglio 1984 dagli UFO, liberata dopo un incontro ravvicinato “del quarto tipo” il 13 ottobre dello stesso anno, si era ritrovata gravida di un ibrido umano alieno. E io, che per la prima volta venivo a conoscenza degli incontri ravvicinati del quarto tipo, appresi che essi non sono neppure infrequenti.
La seconda visita la feci al vecchio Aldo. Anche perché era da molto che non lo andavo a trovare. Mi serviva un po’ di sanità mentale, mi dissi. Lo trovai invecchiato, sempre con quella faccia da incazzato, ma un po’ più perso. Non volevo che pensasse che andavo a trovarlo solo per fargli delle domande che servivano alla mia ricerca, quindi la presi alla lunga: gli parlai dell’università, di ragazze, di politica, ma alla fine venni in argomento. Gli dissi che facevo una ricerca su come le persone potessero credere a tutte le fandonie che passavano in televisione o al bar. E lui mi disse che per lo più erano tutti imbecilli, troppo impegnati a fottersi uno con l’altro per ricordarsi di inserire il cervello.
Lo penso anch’io, gli dissi. Sto indagando su quelli che vedono gli UFO a Soncino e sul caso della Maggi. Il vecchio impallidì. Divenne subito presente a se stesso. Molto categoricamente mi disse: lascia stare queste cose! Rimasi allibito. Aldo era la mia ancora di salvezza in quel mondo di superficiali. Era calato il silenzio nella stanza. Aldo si alzò, lasciò la cucina e prese le scale che andavano al piano superiore. Scese poco dopo con un foglio ingiallito in mano. Me lo porse. C’era una specie di rombo con piccoli cerchietti su tre vertici. Ecco, vedi? se sei intelligente, capisci anche tu che è meglio non indagare su questa cosa.
Tornando a casa, ripensavo a quello che avevo visto da Aldo. Niente più di un disegno a penna su una pagina di bloc notes ingiallita dal tempo. Avrebbe potuto disegnare quella cosa su un foglio nuovo, lì, davanti a me in cucina, senza scomodarsi ad andare a prendere quel disegno che conservava da chissà quanti anni. Perché ci teneva che io vedessi proprio quel foglio? Anche mio padre aveva visto il rombo, l’astronave. A cena gli chiesi: ma ti ricordi se quella astronave che avevi visto aveva anche altre luci ai lati? eh, chi se lo ricorda? sono passati decenni… era una sera d’estate, e i grilli facevano un baccano infernale e poi si sono fermati di colpo tutti quanti. Un silenzio incredibile e poi un ronzio strano e quelle luci… ma è durato pochi secondi e ho preso una strizza che forse mi ha fatto vedere di più di quello che c’era. Però parli di luci. Ah, non mi ricordo… sì, forse c’era una luce grande e delle luci piccole.
In università ripresi le mie ricerche. Questa volta cercavo luci a forma di rombo nei cieli del cremonese. Qualcosa in effetti c’era, ma poco, su Soncino, ma gli articoli erano tutti a firma di Saccomanno. A quel tempo però i giornali non avevano ancora messo su internet i loro archivi e quello che potevo leggere erano articoli di blog e c’era un po’ la mania di questi blog, dove chiunque poteva scrivere tutto quello che gli passava per la testa, senza alcun criterio. Citare come fonte in una tesi un blog era per lo meno inappropriato. Cercare nelle uscite di La Provincia (quotidiano di Cremona) degli ultimi 30 anni, almeno, comportava un dispendio di energie che avrebbe avuto senso solo dopo l’approvazione del progetto di tesi da parte del professore. E non era detto che avrei trovato molto di più.
Incappai solo in un articolo di una certa rilevanza. Tale Franco Fasito, che si dichiarava ufologo, parlando degli avvistamenti di oggetti non identificati sul cremonese, se la prendeva con il Comune per aver “speso soldi pubblici” invitando uno “scienziato” nelle scuole per parlare di fenomeni celesti, il quale sosteneva che “la famosa astronave di Soncino” altro non fosse che un fenomeno ottico o meteorologico. Più sotto c’era un disegno di un rombo con dei piccoli cerchi su tre vertici. Per la prima volta, mi sorpresi a dubitare della spiegazione dello scienziato.
A parte questo, le mie ricerche erano a un punto morto. Non avevo in mano nulla di credibile, almeno non abbastanza per importunare il professore. Come procedere? In teoria, raccogliendo testimonianze e interviste. Ma cosa avrebbero aggiunto di più a quello che sapevo? La mia, ricordai a me stesso, non era una ricerca su dei fatti presunti, ma sul meccanismo che porta alla gente a credere a queste storie solo sulla base di dicerie e di qualche disegno. C’era anche dell’altro che mi fermava: il fatto di vedere che anch’io non ero immune dal fascino di questi racconti. Da una parte non volevo indagare oltre per paura di finire per crederci, e dall’altra c’era il timore di capire fino in fondo che solo di storie si trattava. In fondo, ero già persuaso che una astronave di luce a forma di rombo venisse ogni tanto a far le visite a Soncino.
Visite a cosa? O a chi? La mia mente rispose subito, e la mia volontà cercò in un primo momento di ricacciare indietro la risposta, ma fu inutile, la risposta mi aveva già fatto perdere la ragione. Il figlio della Maggi, l’ibrido, il mostro. Se era rimasta incinta, dov’era adesso suo figlio?
A chi chiedere? Ad Aldo no, perché non gli avrebbe fatto piacere; a mio padre inutile perché probabilmente non lo sapeva o non sapeva di più di quello che avrei saputo da chiunque in paese. Al giornalista nemmeno perché avrebbe cominciato una delle sue tiritere infinite con teorie surreali. Alla madre, la signora Graziella Maggi, non era il caso, probabilmente era sepolta in casa e non era il caso di andare a disturbare una schizofrenica, o cos’altro fosse.
Mentre pensavo a come uscire dal quel cul-de-sac, mi capitò una cosa abbastanza incredibile. Una sera, rientrando a casa da una passeggiata a piedi, sulla strada che porta all’argine dell’Oglio, vedo una figura venirmi incontro da lontano. Non ci faccio caso: ero su una strada sterrata contornata di frassini, tra i campi. La passeggiata aveva avuto il potere di rilassarmi ed ero quindi di animo lieto, pregustavo la cena di mia madre lasciando scorrere i pensieri. La figura che veniva verso di me aveva però la testa più grande del normale e poco dopo qualcosa mi diede a intendere che si trattasse di una donna. In un lampo compresi. La figura che avanzava, e che ormai era perfettamente riconoscibile, era una donna minuta con un casco in testa.
Non potei fare a meno di guardarla in faccia mentre mi passava a lato. Il casco era di quelli aperti e non mi toglieva gli occhi di dosso. Quando fu sul punto di superarmi, le dissi con imbarazzo, buonasera. Lei non disse nulla e continuò a camminare, ma una volta che mi ebbe superato, disse: mio figlio è alle elementari!
Rimasi scioccato. Mi voltai, lei era ferma che mi guardava. Avrei voluto dirle che era impossibile, che avrebbe dovuto avere circa 18 anni. Le avrei voluto chiedere: dov’è suo figlio adesso? Ma il suo sguardo era duro e portava il casco. Le dissi, non so perché: ho capito, grazie. Lei distolse lo sguardo e fece cenno di sì con la testa. Ritornò chiusa in se stessa e, senza più badare a me, si voltò e riprese la sua strada.
Tornai a casa molto perplesso. Rimasi taciturno per tutta la cena, tanto che mia mamma mi chiese se andasse tutto bene. Mi aveva fatto impressione quello che mi aveva detto. Mio figlio è alle elementari. Che aveva voluto dire? Che suo figlio era ritardato e che quindi frequentava ancora le elementari? Poi mi venne un atroce sospetto. Un sospetto che nella mia testa aveva tutta la forza della verità. Glielo avevano portato via perché non era in grado di accudirlo. E probabilmente proprio quando il bambino frequentava le elementari. Mi facevo tutto un film in testa. A scuola arrivano gli assistenti sociali e portano via il bambino, senza il consenso della madre. E lei sola, già mezza pazza, che crolla completamente. Mio figlio è alle elementari, a scuola. Non è più tornato, io lo sto ancora aspettando. Il film nella mia testa finiva con una astronave di luce che rapiva a sua volta il bambino dai cattivi assistenti sociali e lo portava in un mondo di suoi simili, dove non si sarebbe sentito solo e dove, ogni tanto, con l’astronave di luce, tornava a vedere la madre. Questo mio film mentale era molto più accettabile della realtà.
Sentii la nausea prendermi lo stomaco. Il mio paese era per me a quel tempo il cimitero popolato di zombi da cui avrei voluto scappare. Ma io vengo da un paese morto da generazioni!, dissi. Il lavoro dello storico è, a rigore, quello di parlare con i morti, disse il professore; forse questo è quello che vede lei perché l’ha sempre valutato (a priori) come un paese morto. E quindi, giocoforza, ha sempre cercato prove a sostegno di questo suo modo di vedere. Si dia da fare, disse congedandomi, e torni da me con un soggetto interessante.
Altro che entusiasmo, me ne andai afflosciato! Il mio paese, Soncino, era per me l’emblema della sconfitta spirituale dell’umanità. La gente si era ritirata in quel paese per morirvi. Apparentemente, viveva, faceva figli, costruiva case e andava a messa, ma qualsiasi ipotesi sull’esistenza di qualcosa che si discostasse dalla mera perpetuazione delle incombenze quotidiane, era bandita dai cervelli della popolazione. Io allora avevo pochi anni sulle spalle, ma vedevo mia madre, per esempio, andare in visibilio per il fenomeno televisivo del momento e crederci ciecamente, fino a che la sua infatuazione si trasferiva al nuovo soggetto televisivo (e in questa categoria ci mettevo anche i politici) senza avere nessuna memoria di ciò che le aveva scaldato il sangue fino a qualche mese prima. Una assenza di memoria che era comune a tutti i soncinesi che mai avessi incontrato e conosciuto. Solo il vecchio Aldo, a dire il vero, pareva immune da questa sorta di sortilegio che ammorbava l’aria. Il vecchio Aldo e io. Lui che bestemmiava le sue analisi in perpetuo, che nessuno ascoltava, e io che avevo affrontato l’università come grimaldello per fuggire dalla mia prigione.
Tornato a casa nel fine settimana (perché pur sempre facevo il ribelle sul libro paga di mio padre) capitai nel bar del paese. Non avevo uno scopo, mi annoiavo e avevo voglia di un caffè. Mi sedetti e mi misi a sfogliare il giornale locale. Mi cadde l’occhio su articolo: UFO nei cieli sopra Soncino. Presi a leggere avidamente. L’articolo fra altre cose diceva: “L’episodio più significativo si è, però, verificato giovedì 22 settembre nella zona di Soncino, il bel borgo medievale famoso per la sua rocca viscontea, in prossimità del fiume Oglio. A raccontare nel dettaglio quanto ha visto è un ingegnere elettronico, residente in paese e stimato professionista: “Stavo andando al lavoro all’incirca alle 6,30 di mattina e percorrevo in auto la statale in direzione di Orzinuovi. In quel momento ho visto una luce molto forte, a forma di rombo, sulla sinistra in alto. Dopo averla osservata con curiosità per alcuni secondi, con la netta impressione che fosse ferma, all’improvviso è schizzata via a velocità impressionante. Sono certo che non si trattasse della stazione spaziale che in questo periodo dell’anno si può osservare come luce fissa in cielo nelle ore prossime all’alba.”
La noia mi si girò in speranza, poteva essere una traccia. A cena chiesi ai miei che presero allegramente a sfottermi. Ufo a Soncino ce n’erano sempre stati, tutti che li hanno visti. Cagate, le definì mio padre. La gente si annoia e vede gli ufo ovunque, sono satelliti o altre robe. Mia mamma intervenne, beh, c’è la storia della Graziella. Ah, allora siamo a posto! È vero, la Graziella, dissi io, mentre mi tornavano alla mente ricordi confusi. Com’è la storia di questa Graziella? Mah, va a sapere come è stata. Lei era stata rapita negli anni ‘80. A quel tempo i rapimenti di persone erano frequenti, rapivano un sacco di gente. La mafia, i brigatisti; per chiedere un riscatto o altro. I più finivano liberati nel giro di poche settimane. Li tenevano i pastori in Gallura o sull’Aspromonte. E lei era figlia di un industrialotto di paese. Era gente che stava bene, disse mia madre. Mah, riprese mio padre, sono altri quelli che stanno bene. Quello, il Maggi, aveva qualche fatto qualche soldo perché da ragazzo lavorava come centralinista e si ascoltava tutte le telefonate, e quindi sapeva tutto di tutti. Poi aveva rilevato un’azienda e si barcamenava. Era un trafficone.
E poi? E poi niente, forse uno a cui aveva pestato i piedi, gli aveva fatto rapire la figlia e gliel’ha ritornata dopo qualche tempo, ovviamente gravida e, in più, fuori di senno.
Ma non era quella che girava in paese sempre col casco? chiesi. Sì, lei; girava con il casco in testa perché se no, diceva che gli alieni le rubavano i pensieri.
Sorrisi un po’ sconcertato. Dietro una che avevamo sempre preso in giro ai tempi della scuola, si nascondeva una tragedia personale. Chiesi: ma com’è che da una povera pazza che vede gli UFO, adesso tutti li vedono?
Ma sì, la gente non ha di meglio da fare. Uno vede una luce in cielo, lo racconta al bar, un altro tira fuori la storia della Maggi e il terzo sulla via di casa, con qualche birretta in corpo, ecco che ti vede gli UFO pure lui.
Anche tuo papà li ha visti!, disse ridendo mia mamma. Ma sì, cagate, una volta ero lì sull’argine e ho visto queste luci che, vabbè, mi ero preso una bella strizza, ma va a sapere che diavolo erano.
Racconta. Ma sì, è successo un sacco di anni fa, tu eri alle elementari. Era di notte e mi è comparsa sta luce in cielo, un’astronave, cioè non so proprio che diavolo era, ho pensato a un’astronave, ma vabbè, non ci ho mai creduto. Una luce a forma di rombo.
Nei giorni seguenti, cercai informazioni su internet. Alla ricerca su Altavista (non esisteva ancora Google) “Avvistamenti UFO in Italia” saltò fuori un eccesso di materiale. Scoprii che gli avvistamenti erano anche di Gnomi, Fate, Fantasmi e Madonne, ma quelli decisi di tralasciarli per il momento. Quello che compresi ai fini della mia ricerca era che A) gli avvistamenti erano andati calando in Italia dagli anni ’50 venendo in qua; B) gli ufologi amavano rinchiudersi in gruppi piuttosto chiusi per passarsi notizie, millantare complotti ai loro danni e smontare spiegazioni di gente malevola e interessata che prendeva il nome generico di scienziati; C) che, sempre secondo questi ufologi, gli unici ad avere le prove erano i militari e gli unici a sapere la verità erano loro stessi; D) che gli ufologi amavano raccattare citazioni di uomini importanti che confermavano le loro teorie: Jung, Kary Mullis, Platone, il profeta Ezechiele… e E) che mai neppure per scherzo a questi signori passava per la testa l’idea di mettere in dubbio quello che andavano scrivendo sui loro blog.
Il fine settimana successivo, di nuovo a casa dai miei, a Soncino, decisi di muovermi sul territorio alla ricerca di indizi. Altri sapevano di queste storie di UFO? Decisi di dire che stavo facendo una ricerca per conto dell’Università sugli avvistamenti e di evitare di dire che in realtà la ricerca era sul come fosse possibile che la gente credesse a simili baggianate. Come mi aveva consigliato il Villagrossi, presi il libro di Carlo Ginzburg e studiai il suo metodo di lavoro. Caspita, mi dissi, questo è un gigante del pensiero! Ogni pagina era illuminante, smontava uno dopo l’altro i miei schemi mentali. Il mio prof aveva ragione, noi ci facciamo delle convinzioni e cerchiamo di convincere gli altri e noi stessi della nostra ragione, senza un minimo di fondamento scientifico. Ma Ginzburg andava oltre: diceva che sostenere che una cosa è scientifica è la prima scusa che ci inventiamo per avvalorare la nostra ipotesi. Credere che sia scientifico non è scienza.
Il primo che volli contattare fu il giornalista dell’articolo, tal Saccomanno. Il che fu piuttosto facile perché faceva l’impossibile per farsi conoscere, seminava mail e numeri di telefono praticamente ovunque. Era un personaggio noto in paese, non stimato, ma noto. Ci accordammo e venni a casa sua. Mi subissò di parole. Lo temevo, ma non credevo fino a quel punto. Partì con un’aria molto contrita e sostenendo, tra infiniti preamboli, che la mia era un’indagine rischiosa, che lui mi diceva quelle cose in via confidenziale, e che fosse meglio per tutti, e per me in particolare, non rivelare niente a nessuno. Arrivò a chiedermi se fosse stato il mio professore a mettermi su quella strada. Dissi di no, che lui mi aveva solo invitato a occuparmi di storia locale, ma ancora non sapeva che stavo indagando sugli UFO. Quindi il tuo professore non sa nulla su questa cosa? Ancora no. Se vuoi un consiglio, disse, cambia argomento. Io so come funziona: vedrai che appena ci vai a parlare, lui ti dirà di lasciar perdere e in un modo o nell’altro ti metterà nella condizione di cambiare strada.
Tra molte reticenze e dettagli inutili, arrivò a dirmi che a Soncino succedevano cose che era meglio non si sapessero. Del tipo? chiesi. Sinceramente, mi disse, non ne voglio parlare, potresti prendermi per pazzo e questo sarebbe il meno; potresti anche credere a quello che ti dico e ti metterei in pericolo. Chiaramente, moriva dalla voglia di raccontarmi questo segreto. Visto che ormai avevo capito la psicologia del personaggio, decisi di giocare la mia carta. Si tratta forse della signora Maggi? Lui fece un’aria se possibile ancora più seria. Che cosa sai tu? Mi hanno detto che è stata rapita da dei banditi molti anni fa e che non si è più ripresa e crede di essere stata rapita dagli UFO o qualcosa del genere. Il giornalista mi guardò beffardo. Una spiegazione che mette tutti a tacere, disse fiero.
Riconquistata la libertà, dopo molto soffrire da parte delle mie orecchie, potei riassumere il segreto di Soncino in una sola frase. Graziella Maggi, anni 17, rapita il 26 luglio 1984 dagli UFO, liberata dopo un incontro ravvicinato “del quarto tipo” il 13 ottobre dello stesso anno, si era ritrovata gravida di un ibrido umano alieno. E io, che per la prima volta venivo a conoscenza degli incontri ravvicinati del quarto tipo, appresi che essi non sono neppure infrequenti.
La seconda visita la feci al vecchio Aldo. Anche perché era da molto che non lo andavo a trovare. Mi serviva un po’ di sanità mentale, mi dissi. Lo trovai invecchiato, sempre con quella faccia da incazzato, ma un po’ più perso. Non volevo che pensasse che andavo a trovarlo solo per fargli delle domande che servivano alla mia ricerca, quindi la presi alla lunga: gli parlai dell’università, di ragazze, di politica, ma alla fine venni in argomento. Gli dissi che facevo una ricerca su come le persone potessero credere a tutte le fandonie che passavano in televisione o al bar. E lui mi disse che per lo più erano tutti imbecilli, troppo impegnati a fottersi uno con l’altro per ricordarsi di inserire il cervello.
Lo penso anch’io, gli dissi. Sto indagando su quelli che vedono gli UFO a Soncino e sul caso della Maggi. Il vecchio impallidì. Divenne subito presente a se stesso. Molto categoricamente mi disse: lascia stare queste cose! Rimasi allibito. Aldo era la mia ancora di salvezza in quel mondo di superficiali. Era calato il silenzio nella stanza. Aldo si alzò, lasciò la cucina e prese le scale che andavano al piano superiore. Scese poco dopo con un foglio ingiallito in mano. Me lo porse. C’era una specie di rombo con piccoli cerchietti su tre vertici. Ecco, vedi? se sei intelligente, capisci anche tu che è meglio non indagare su questa cosa.
Tornando a casa, ripensavo a quello che avevo visto da Aldo. Niente più di un disegno a penna su una pagina di bloc notes ingiallita dal tempo. Avrebbe potuto disegnare quella cosa su un foglio nuovo, lì, davanti a me in cucina, senza scomodarsi ad andare a prendere quel disegno che conservava da chissà quanti anni. Perché ci teneva che io vedessi proprio quel foglio? Anche mio padre aveva visto il rombo, l’astronave. A cena gli chiesi: ma ti ricordi se quella astronave che avevi visto aveva anche altre luci ai lati? eh, chi se lo ricorda? sono passati decenni… era una sera d’estate, e i grilli facevano un baccano infernale e poi si sono fermati di colpo tutti quanti. Un silenzio incredibile e poi un ronzio strano e quelle luci… ma è durato pochi secondi e ho preso una strizza che forse mi ha fatto vedere di più di quello che c’era. Però parli di luci. Ah, non mi ricordo… sì, forse c’era una luce grande e delle luci piccole.
In università ripresi le mie ricerche. Questa volta cercavo luci a forma di rombo nei cieli del cremonese. Qualcosa in effetti c’era, ma poco, su Soncino, ma gli articoli erano tutti a firma di Saccomanno. A quel tempo però i giornali non avevano ancora messo su internet i loro archivi e quello che potevo leggere erano articoli di blog e c’era un po’ la mania di questi blog, dove chiunque poteva scrivere tutto quello che gli passava per la testa, senza alcun criterio. Citare come fonte in una tesi un blog era per lo meno inappropriato. Cercare nelle uscite di La Provincia (quotidiano di Cremona) degli ultimi 30 anni, almeno, comportava un dispendio di energie che avrebbe avuto senso solo dopo l’approvazione del progetto di tesi da parte del professore. E non era detto che avrei trovato molto di più.
Incappai solo in un articolo di una certa rilevanza. Tale Franco Fasito, che si dichiarava ufologo, parlando degli avvistamenti di oggetti non identificati sul cremonese, se la prendeva con il Comune per aver “speso soldi pubblici” invitando uno “scienziato” nelle scuole per parlare di fenomeni celesti, il quale sosteneva che “la famosa astronave di Soncino” altro non fosse che un fenomeno ottico o meteorologico. Più sotto c’era un disegno di un rombo con dei piccoli cerchi su tre vertici. Per la prima volta, mi sorpresi a dubitare della spiegazione dello scienziato.
A parte questo, le mie ricerche erano a un punto morto. Non avevo in mano nulla di credibile, almeno non abbastanza per importunare il professore. Come procedere? In teoria, raccogliendo testimonianze e interviste. Ma cosa avrebbero aggiunto di più a quello che sapevo? La mia, ricordai a me stesso, non era una ricerca su dei fatti presunti, ma sul meccanismo che porta alla gente a credere a queste storie solo sulla base di dicerie e di qualche disegno. C’era anche dell’altro che mi fermava: il fatto di vedere che anch’io non ero immune dal fascino di questi racconti. Da una parte non volevo indagare oltre per paura di finire per crederci, e dall’altra c’era il timore di capire fino in fondo che solo di storie si trattava. In fondo, ero già persuaso che una astronave di luce a forma di rombo venisse ogni tanto a far le visite a Soncino.
Visite a cosa? O a chi? La mia mente rispose subito, e la mia volontà cercò in un primo momento di ricacciare indietro la risposta, ma fu inutile, la risposta mi aveva già fatto perdere la ragione. Il figlio della Maggi, l’ibrido, il mostro. Se era rimasta incinta, dov’era adesso suo figlio?
A chi chiedere? Ad Aldo no, perché non gli avrebbe fatto piacere; a mio padre inutile perché probabilmente non lo sapeva o non sapeva di più di quello che avrei saputo da chiunque in paese. Al giornalista nemmeno perché avrebbe cominciato una delle sue tiritere infinite con teorie surreali. Alla madre, la signora Graziella Maggi, non era il caso, probabilmente era sepolta in casa e non era il caso di andare a disturbare una schizofrenica, o cos’altro fosse.
Mentre pensavo a come uscire dal quel cul-de-sac, mi capitò una cosa abbastanza incredibile. Una sera, rientrando a casa da una passeggiata a piedi, sulla strada che porta all’argine dell’Oglio, vedo una figura venirmi incontro da lontano. Non ci faccio caso: ero su una strada sterrata contornata di frassini, tra i campi. La passeggiata aveva avuto il potere di rilassarmi ed ero quindi di animo lieto, pregustavo la cena di mia madre lasciando scorrere i pensieri. La figura che veniva verso di me aveva però la testa più grande del normale e poco dopo qualcosa mi diede a intendere che si trattasse di una donna. In un lampo compresi. La figura che avanzava, e che ormai era perfettamente riconoscibile, era una donna minuta con un casco in testa.
Non potei fare a meno di guardarla in faccia mentre mi passava a lato. Il casco era di quelli aperti e non mi toglieva gli occhi di dosso. Quando fu sul punto di superarmi, le dissi con imbarazzo, buonasera. Lei non disse nulla e continuò a camminare, ma una volta che mi ebbe superato, disse: mio figlio è alle elementari!
Rimasi scioccato. Mi voltai, lei era ferma che mi guardava. Avrei voluto dirle che era impossibile, che avrebbe dovuto avere circa 18 anni. Le avrei voluto chiedere: dov’è suo figlio adesso? Ma il suo sguardo era duro e portava il casco. Le dissi, non so perché: ho capito, grazie. Lei distolse lo sguardo e fece cenno di sì con la testa. Ritornò chiusa in se stessa e, senza più badare a me, si voltò e riprese la sua strada.
Tornai a casa molto perplesso. Rimasi taciturno per tutta la cena, tanto che mia mamma mi chiese se andasse tutto bene. Mi aveva fatto impressione quello che mi aveva detto. Mio figlio è alle elementari. Che aveva voluto dire? Che suo figlio era ritardato e che quindi frequentava ancora le elementari? Poi mi venne un atroce sospetto. Un sospetto che nella mia testa aveva tutta la forza della verità. Glielo avevano portato via perché non era in grado di accudirlo. E probabilmente proprio quando il bambino frequentava le elementari. Mi facevo tutto un film in testa. A scuola arrivano gli assistenti sociali e portano via il bambino, senza il consenso della madre. E lei sola, già mezza pazza, che crolla completamente. Mio figlio è alle elementari, a scuola. Non è più tornato, io lo sto ancora aspettando. Il film nella mia testa finiva con una astronave di luce che rapiva a sua volta il bambino dai cattivi assistenti sociali e lo portava in un mondo di suoi simili, dove non si sarebbe sentito solo e dove, ogni tanto, con l’astronave di luce, tornava a vedere la madre. Questo mio film mentale era molto più accettabile della realtà.
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