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Il Paradiso degli Orchi
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ATTUALITA'

Stefano Torossi

Puro masochismo

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Il Circolo scandinavo. Nessuna foto potrebbe descrivere le nostre sensazioni, solo le parole. Dunque: esiste a Roma il Circolo Scandinavo, una foresteria che ospita per brevi soggiorni in un appartamento a Via della Lungara artisti svedesi, norvegesi, finlandesi, danesi e islandesi.
Riceviamo l’invito a un incontro (con rinfresco) con gli ospiti residenti. Decidiamo di andare a vedere.
Portone chiuso, nessuna traccia di accoglienza. Citofono. Dopo un po’ una voce bianca ci risponde e ci apre. Saliamo al secondo, dove troviamo un bambino (la voce bianca) che ci introduce in un appartamento tristissimo, fiocamente illuminato da poche lampadine, massimo 20 candele. Una sala con qualche sedia, deserta. Un pianoforte. Poltrone e divanetti con centrini sui braccioli: il salotto della nonna. Nell’altra stanza, su un tavolo, tre bottiglie di vino dei Castelli e un piattino di pretzel: il rinfresco.
Arrivano signori e signore grigissimi, polverosi, di assoluta ineleganza. Non per essere snob, ma quando loro ci si mettono a dare il peggio, ci riescono molto meglio di noi del sud Europa. Parlottano nelle loro lingue impossibili; per fortuna reagiscono positivamente all’inglese. Ma è tutto moscio, l’atmosfera è stantia, la muffa ricopre ogni cosa, un mortorio.
Con il cuore intirizzito dal gelo scandinavo, ci facciamo forza, aspettiamo la scadenza della mezz’ora di cortesia; non succede niente. Allora via a gambe levate con la ferma intenzione di non farci mai più vedere. Non sapremo nulla sull’opera degli artisti o sulla qualità del vino. Pazienza.

“Festa della Musica per il Cinema” al Teatro Argentina. Stavolta la foto la mettiamo, anche se è riuscita male, perché la ragazza in stile Botero che regge il premio destinato a Morricone merita un’occhiata. In apertura di serata, la Sonora 2014, organizzatrice della faccenda, onora la carriera del grande maestro, il quale, ascoltata l’esecuzione di un suo brano, ritira la targa e scappa a casa. Segue una troppo lunga sfilza di autori di musica per documentari, film, fiction, tutti premiati, anche se non tutti noti.
Bravi o no, non ci interessa. Ci colpisce il fatto che, con qualche lodevole eccezione, quasi tutti si presentano con addosso non diciamo capi di civile abbigliamento, oppure (folle esagerazione!) giacca e cravatta, ma quotidiani stracci. Su questo argomento tendiamo a ripeterci, lo sappiamo, ma quando sali sul palco di un teatro (prestigioso) per prendere un premio (prestigioso o no), mettiti almeno una camicia pulita, un pantalone stirato, magari qualcosa di bizzarro, se proprio ci tieni, ma non la maglietta di tutti i giorni. Perché il palcoscenico è un altare, e qualunque fatto avvenga lassù è una cerimonia.
E all’organizzazione vorremmo suggerire una valletta un filino meno scosciata e magari un po’ più snella.
Mostra del peperoncino. Una manifestazione di cui si sentiva proprio la mancanza. Piante e campioni di peperoncini piazzati sui tufi di un tratto delle Mura Serviane di Roma (VI secolo a.C.) salvato dalla furia edilizia del secolo XIX e valorizzato nel XX, nella sede del Corpo Forestale dello Stato, organizzatore e ospite. Inutile dire che noi eravamo lì, convinti della futilità dell’evento, ma comunque curiosi, e in seguito premiati da quello che abbiamo imparato.
Ripassiamo insieme: l’Italia non è in grado di soddisfare la richiesta interna, quindi importa il 70% del fabbisogno da Pakistan, India e Messico. Il capsicum annuum è la specie più coltivata da noi. E’ originario del Sud America ed è stato portato in Europa da Colombo. La piccantezza non è un gusto, ma una sensazione; infatti l’alcaloide che la provoca è incolore e insapore. Il suo grado si esprime in punti di una scala vertiginosa, quella di Scoville. Il campione fino al 2006 era l’Habanero Red Savina, messicano, con 577.000 punti. Surclassato l’anno dopo dall’ibrido indiano Naga Jolokia, 1.041.427 punti, e oggi siamo arrivati a un milione e quattrocentomila con il Trinidad Moruga Scorpion. Numeri per noi esagerati (forse si potrebbero eliminare alcuni zeri), ma, ci dicono, ufficiali.
E dopo questa lezioncina, tutti in trattoria per un piatto di penne all’arrabbiata.
Ah, dimenticavamo: il peperoncino è ricchissimo di vitamina C. Molto più degli agrumi. Per ognuno di noi, una puntina sarebbe sufficiente per tutta la giornata. Certo, poi, la scala Scoville…


Ikebana. All’Istituto Giapponese di Cultura, l’ultima autoflagellazione: una dimostrazione di ikebana, l’arte orientale di disporre i fiori.
Ogni ikebanista ci guida al fragrante risultato di una preparazione meticolosa, elegante, ma necessariamente lunga e inevitabilmente noiosa, resa ancora più pesante dal cicaleccio incessante di una signora italiana che credendosi obbligata a riempire i silenzi racconta cose che vediamo benissimo da soli.
“Ecco adesso Yoko taglia questa foglia con cura perché deve essere della lunghezza giusta”. “Ecco, adesso Yoko dispone le due margherite gialle simmetricamente come vuole la scuola ikenobo”. E poi, via con i nomi giapponesi delle forbicine, del vasetto, della spugna, dei rami, dei fiori, delle scuole, delle tecniche, dei maestri…
Una faccenda estenuante, che ci porta a benedire la nostra TV, la quale, almeno, nei programmi di cucina non ci tiene impegnati per le ore di effettiva preparazione e cottura. Vedi un coltello che taglia gli ingredienti, la mano del cuoco che li versa nell’acqua, un mestolo che li gira e, miracolo del montaggio, dopo quattro secondi la pasta e fagioli è bell’e pronta.





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