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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Danilo Arona

Rock. I delitti dell'uomo nero

Edizioni della Sera, Pag. 470 Euro 15, 00
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Ha ragione Maurizio De Giovanni sulla fascetta di copertina. Quella di Danilo Arona è una "lucida e allucinata narrazione". Che, aggiungo, dona a questo suo romanzo 'giovanile' un che di straordinario che ti mette in trappola. Sì perché Rock. I delitti dell'uomo nero non è solo un gran bel romanzo (e se la casa editrice fosse stata attenta ai refusi sarebbe stato ancora meglio), ma è una storia noir tutta italiana ma di perfetto respiro internazionale che riesce a districarsi con agilità fra l'horror e il thriller per trattare un grande tema; uno di quelli da appassionati. Il rock. Anzi, il Rock. L'ambientazione, come la storia, è quasi un'astrazione: una provincia italiana del nord est-ovest (un po' Romagna un po' Svizzera, un po' Piemonte), un non luogo onirico, un'America anni'60 strampalata come i gruppi di hippy che si strafacevano di LSD, un'isola delle Canarie. Su tutte le teste, invisibile e ultradimensionale pende La Terra di Colà (che se avrete pazienza di leggere il libro individuerete). In mezzo, i grandi musicisti che il Rock con la maiuscola ha fagocitato, a partire da quella che è un po' la figura chiave del mito e di tutto il libro: Jimi Hendrix. Arona immagina che dietro la scomparsa dei grandi geni della musica internazionale ci sia una mano nemmeno troppo invisibile che abbia architettato tutto. Questa mano si chiama Sam Hain e lo ritroviamo alla fine degli anni'60 nella suddetta provincia romagnola che si unisce a un gruppo rock (con la minuscola) italiano: I Privileges. Qui, Rudi Marconi diventa il miglior amico di questo strano personaggio, abile come Hendrix con la sua Fenderstratocaster e misterioso a tal punto da comparire e riscoprire, da lasciare dietro di sé cose e accadimenti (omicidi e ragazze scomparse) inconsueti che iniziano a poco a poco a turbare l'allegra combriccola di suonatori ventenni. Il romanzo di Arona è un romanzo sulla storia di una cultura, quella rock, che negli anni '60 e poi nei '70 incontrò una selva di convinti oppositori che gli si scagliarono contro. La musica del diavolo; i bianchi integralisti che invocavano punizioni divine per chi ascoltava quei negri, froci e drogati che battevano le casse e stridevano le corde e fendevano i timpani con quattro quarti taglienti come lamette di un serial killer (a venire). La figura di Sam Hain si staglia dietro i grandi delitti rock (Brian Jones, Janis Joplin, Jim Morrison, fino a Marvin Gaye). Dalla parte opposta, i Grandi Fustigatori sezionano l'America peccaminosa e incendiano le radio dove si suona l'abominio del caprone, condannano e danno la caccia a una fantomatica etichetta discografica che trama nell'ombra per diffondere il credo malsano di Sam Hain: la Cobra Records.

Un romanzo direi sorprendente per difficoltà tematica, per costruzione narrativa, per una trama che a tratti ti fa perdere il senno (come un allucinogeno) ma poi ti di-svela piano piano le sue fattezze, riunisce i punti oscuri (joins the dots, direbbero oltre Manica e Oceano), ti pianta la sua scomoda verità come un macilento pugnale nel petto. A tratti lirico e ispirato a tratti peggio di un B movie splatter e sanguinolento, Rock è un'imperdibile avventura in stereofonia. Un omaggio, anche se tragico, al genere. Un viaggio sotto amanita muscaria che non può non avere come colonna sonora di lettura i pezzi citati di continuo, quelli che hanno fatto la musica di quella che è una cultura di vita (il Rock, appunto) e che hanno segnato la vita degli esseri umani: da 'Helter Skelter' dei Beatles a 'Purple Haze' e 'Voodo Chile' di Hendrix, da 'I Heard it Through the Grapevine' di Marvin Gaye a 'The End' dei Doors passando per quella orribile punizione che furono il punk e la New Wave anni'80. Applausi. Applausi. E Bis, se possibile.



di Adriano Angelini Sut


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Partirei da qui: Quell'ammasso, quell'onda di morte che avanza sospinta dalla forza di un astro invisibile, altro non è che una metafora. Potente quanto banale. Perché poi, alla fine, il Male è banale. (Pag.447).
Sì, sulla banalità del male, senza finalità horror, anche se l'orrore era in quello che la Storia aveva mostrato, la Arendt ha dato il suo notevole contributo quando parlò della figura di Eichmann, il gerarca nazista, che alla fine del processo di Gerusalemme lo si vide condannato a morte per crimini contro l'umanità.

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