CLASSICI
Alfredo Ronci
Un cantore della Sardegna silenziosa: “Paese d’ombre” di Giuseppe Dessì.
Diceva Dessì: Perché in Sardegna? Mi si chiederà ancora una volta. Perché, a parte le ragioni storiche ed artistiche che richiederebbero un troppo lungo discorso, come ci insegnano Spinoza, Leibniz, Einstein e Merleau-Pomty, ogni punto dell’universo è anche il centro dell’universo.
E ancora… Il sardo che vive sul continente ha sempre alle spalle il mare, una zona di silenzio e di buio che lo separa dal mondo materno della sua isola. Questa solitudine spaziale e temporale circonda l’individuo in Sardegna come un alone di silenzio che ognuno porta sempre con sé.
Dunque Dessì parla della Sardegna come fosse un elemento quasi fisico, una “zona di silenzio” che cattura il cittadino, il sardo per l’appunto. Paese d’ombre, forse inavvertitamente, vinse il Premio Strega nel 1972, ma quel che era contenuto nella storia era quasi secoli lontano da noi, ma realisticamente raccontava un presente riconosciuto.
E’ la storia di Angelo Uras, che dopo un incidente che costò la vita a don Francesco Fulgeri, una sorte di padre putativo del ragazzo, eredita, insieme alla madre, un patrimonio ben sostanzioso dell’uomo (beni mobili, ma soprattutto immobili) e grazie a quell’eredità svolgerà un ruolo ben predominante nella vita di Norbio il paese dove abita: diventerà addirittura sindaco e riuscirà a risolvere anche diatribe non indifferenti nell’arco della sua carica.
Angelo Uras è la persona che… nel silenzio udiva il fruscio del bosco, profondo e complesso come il brusio ansioso di una folla. E a proposito del silenzio ci appare quasi conclusiva l’immagine che ne dà Claudio Varese, colui che ha curato l’introduzione a questa edizione del libro: Il silenzio è il cerchio nel quale si viene formando il racconto stesso, è una qualità che Dessì vede nella Sardegna e nei sardi, è una dimensione nella quale questi uomini e queste donne si maturano in un tempo lento che si raccoglie in un punto. Il silenzio è nelle cose e negli uomini, può riempirsi di un brulichio di pensieri o può riempire la valle improvviso, può accompagnarsi con la morte e può difendere una lenta agonia, può accompagnarsi al pianto e può approfondire la gioia, diventarne condizione e misura.
Belle sono le pagine di tristezza, come per esempio la morte del vecchio Francesco Fulgeri, della prima ragazza di Angelo, Valentina, che sarà comunque l’unica, anche dopo il nuovo matrimonio che stipulerà il giovane, ad essere il centro, quasi sanguigno della vita dell’uomo, e la madre stessa dell’Uras che fu la portatrice sana dell’eredità del figlio.
E molti critici si sono sbrigati a cercare di affibbiare una paternità, non solo linguistica, ma anche di facciata agli eroi di Dessì: forse inutilità, perché il romanzo del sardo, ricordiamolo che uscì nel 1972, cioè in un periodo non proprio felice per un ripasso storico, al di là di certe rimembranze letterarie, può essere ritenuto un unicum nel panorama narrativo della nostra letteratura. Per carità, il Nievo di Confessioni di un italiano, può anche farcelo ricordare, così come certe cose del De Roberto o anche certe marcature del Verga meno verista. Esatto, ma al di là di certi preziosismi, che come abbiamo detto possono essere anche considerati nulli, Paese d’ombre rimane un capitolo a sé.
Lo stile della costruzione, chiamiamola così, piena di un’evidenza così rara nella narrativa del periodo, non è né naturalista né tanto meno realista, ma è un coacervo di sensazioni e del tempo letterario assolutamente originali.
Ci piace, in questo riordino del libro di Dessì, riportare un brano che, nel corso della lettura può sembrare non identificativo, ma ripensandolo e rivedendolo, assume una logica e una veridicità dell’autore semplicemente affascinante. Racconta uno dei primi, se non il primo, incontro tra Angelo Uras e la sua prima, “unica” moglie, Valentina: Gli prese con la destra la mano sinistra e gliela strinse così forte da fargli male. Angelo non immaginava che in quella mano esile potesse esserci tanta forza e rimase lì immobile, docile e felice. Lei socchiuse con la sinistra la porta, si affacciò appena nella fessura e disse semplicemente con la sua voce armoniosa: “Vengo subito”. Poi richiuse e, senza parole, appoggiati uno all’altra scesero gli scalini e si avviarono nel buio fitto. Era lei che lo guidava come se ci vedesse chiaramente.
Non il silenzio, quel silenzio di cui argomentava giustamente il prefatore Varese, ma appena un accenno in più, tanto però da non disturbare.
L’edizione da noi considerata è:
Giuseppe Dessì
Paese d’ombre
Oscar Mondadori
E ancora… Il sardo che vive sul continente ha sempre alle spalle il mare, una zona di silenzio e di buio che lo separa dal mondo materno della sua isola. Questa solitudine spaziale e temporale circonda l’individuo in Sardegna come un alone di silenzio che ognuno porta sempre con sé.
Dunque Dessì parla della Sardegna come fosse un elemento quasi fisico, una “zona di silenzio” che cattura il cittadino, il sardo per l’appunto. Paese d’ombre, forse inavvertitamente, vinse il Premio Strega nel 1972, ma quel che era contenuto nella storia era quasi secoli lontano da noi, ma realisticamente raccontava un presente riconosciuto.
E’ la storia di Angelo Uras, che dopo un incidente che costò la vita a don Francesco Fulgeri, una sorte di padre putativo del ragazzo, eredita, insieme alla madre, un patrimonio ben sostanzioso dell’uomo (beni mobili, ma soprattutto immobili) e grazie a quell’eredità svolgerà un ruolo ben predominante nella vita di Norbio il paese dove abita: diventerà addirittura sindaco e riuscirà a risolvere anche diatribe non indifferenti nell’arco della sua carica.
Angelo Uras è la persona che… nel silenzio udiva il fruscio del bosco, profondo e complesso come il brusio ansioso di una folla. E a proposito del silenzio ci appare quasi conclusiva l’immagine che ne dà Claudio Varese, colui che ha curato l’introduzione a questa edizione del libro: Il silenzio è il cerchio nel quale si viene formando il racconto stesso, è una qualità che Dessì vede nella Sardegna e nei sardi, è una dimensione nella quale questi uomini e queste donne si maturano in un tempo lento che si raccoglie in un punto. Il silenzio è nelle cose e negli uomini, può riempirsi di un brulichio di pensieri o può riempire la valle improvviso, può accompagnarsi con la morte e può difendere una lenta agonia, può accompagnarsi al pianto e può approfondire la gioia, diventarne condizione e misura.
Belle sono le pagine di tristezza, come per esempio la morte del vecchio Francesco Fulgeri, della prima ragazza di Angelo, Valentina, che sarà comunque l’unica, anche dopo il nuovo matrimonio che stipulerà il giovane, ad essere il centro, quasi sanguigno della vita dell’uomo, e la madre stessa dell’Uras che fu la portatrice sana dell’eredità del figlio.
E molti critici si sono sbrigati a cercare di affibbiare una paternità, non solo linguistica, ma anche di facciata agli eroi di Dessì: forse inutilità, perché il romanzo del sardo, ricordiamolo che uscì nel 1972, cioè in un periodo non proprio felice per un ripasso storico, al di là di certe rimembranze letterarie, può essere ritenuto un unicum nel panorama narrativo della nostra letteratura. Per carità, il Nievo di Confessioni di un italiano, può anche farcelo ricordare, così come certe cose del De Roberto o anche certe marcature del Verga meno verista. Esatto, ma al di là di certi preziosismi, che come abbiamo detto possono essere anche considerati nulli, Paese d’ombre rimane un capitolo a sé.
Lo stile della costruzione, chiamiamola così, piena di un’evidenza così rara nella narrativa del periodo, non è né naturalista né tanto meno realista, ma è un coacervo di sensazioni e del tempo letterario assolutamente originali.
Ci piace, in questo riordino del libro di Dessì, riportare un brano che, nel corso della lettura può sembrare non identificativo, ma ripensandolo e rivedendolo, assume una logica e una veridicità dell’autore semplicemente affascinante. Racconta uno dei primi, se non il primo, incontro tra Angelo Uras e la sua prima, “unica” moglie, Valentina: Gli prese con la destra la mano sinistra e gliela strinse così forte da fargli male. Angelo non immaginava che in quella mano esile potesse esserci tanta forza e rimase lì immobile, docile e felice. Lei socchiuse con la sinistra la porta, si affacciò appena nella fessura e disse semplicemente con la sua voce armoniosa: “Vengo subito”. Poi richiuse e, senza parole, appoggiati uno all’altra scesero gli scalini e si avviarono nel buio fitto. Era lei che lo guidava come se ci vedesse chiaramente.
Non il silenzio, quel silenzio di cui argomentava giustamente il prefatore Varese, ma appena un accenno in più, tanto però da non disturbare.
L’edizione da noi considerata è:
Giuseppe Dessì
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