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CLASSICI

Alfredo Ronci

Una piccola perla di rara dolcezza: 'Le svedesi' di Silvano Ambrogi.

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Chi ha conosciuto Silvano Ambrogi ne ha capitalizzato la verve ironica ed una sveltezza alla battuta più arguta e al vetriolo (una fra tutte: Mafioso: persona che dice di non esistere a persone che dicono di non conoscerlo). Lui è l'autore dei Burosauri, pièce teatrale che prendeva a cazzotti l'immane 'tragedia', quasi sempre italica, dell'ottusa, inutile e pedante burocrazia (la commedia fu ripresa più volte durante i decenni, perdendo sempre qualcosina in più, perché quel male è come certi virus, cambia secondo le stagioni, variando e peggiorando) ed è anche lo scrittore che, di fronte alla tronfia attitudine, anche questa molto indigena, di esaltare gli anniversari, celebrò il centenario della nostra Unità con le vicende tragicomiche di un buzzurro e semianalfabeta bersagliere la cui unica preoccupazione, proprio nel giorno dell'esaltazione delle italiche virtù, era quella di fare pipì (Pottapia – 1970).
Ma forse i più hanno dimenticato che Ambrogi esordì letterariamente con un libriccino delizioso che per quanto non possa competere con capolavori tipo Agostino di Moravia, o Ferito a morte di La Capria, o Le piccole vacanze di Arbasino, o la prima parte de Le figlie inquiete di Facco de Lagarda conteneva in sé la sostanza stessa dell'incedere chiotto della melanconia estiva e della struggente parzialità della provincia italiana: Le svedesi.
Protagonista di questa storia è Riccardo, un giovane studente universitario (quasi un'eccezione per l'epoca soprattutto se ragazzo di modesta famiglia) che pur compreso nella responsabilità di differenziarsi dagli amici più scapestrati, sente su di sé il peso di un'incertezza quasi primordiale: Sai, mi chiamo Riccardo Ghedini, non mi piace studiare legge, non so cosa farò nella vita, non certo quello che mi piace, nessuno fa quello che gli piace...
A dire il vero, proprio come per Ferito a morte, il punto centrale del romanzo è una combriccola di scapestrati, morsi dalla voglia di sopravvivere alla noia e presi da un desiderio fremente di anticipare la bella stagione ("Allora quando si va al mare?" E tutti gli anni cercavano di abbreviarne il distacco. Come per una persona cara).

E mare significa sì tanto sole, tante nuotate, ma anche la possibilità di avventure eroticamente ingenue, ma anticipatrici di un confronto sempre più stretto con l'altro sesso: ed ecco che l'avvistamento (che si rivelerà falso) di un gruppo di svedesi fuori dalla Toscana e poi la speranza che le stesse possano giungere da un momento all'altro sulle 'loro' spiagge, determina una sorta di aspettativa collettiva. Quasi un miraggio.
L'eterna attesa delle nordiche e quindi di un senso spiccio da dare all'esistenza (chissà se Ambrogi aveva letto Il deserto dei tartari e quindi Buzzati – quest'ultimo così disturbato nella sospensione di un evento e nella ricerca di un nemico da combattere, lui quasi infantile nella crepuscolare incertezza di un momento unico, ma frivolo da conservare) è 'giocata' sul filo di una straziante, seppur ironica, afflizione. Quel leggero malessere esistenziale che corrode l'anima, come ruggine.
La storia si svolge in una terra che Ambrogi conosceva bene: la provincia pisana. Nonostante fosse nato a Roma, lo scrittore passò gran parte della sua giovinezza proprio in Toscana e in terre dove già si viveva di turismo balneare - Viareggio soprattutto - e in altre che, per una serie di circostanze, avrebbero aspettato ancora un po' la grande stagione delle vacanze - Marina di Pisa, Migliarino e Bocca di Serchio.
E proprio a Bocca di Serchio, dove il fiume si congiunge al mare, che questo manipolo di giovinastri attende, come fossero animali in calore, il rito dell'accoppiamento e quello ancora più esotico, e maledettamente auspicato, del confronto con altre realtà geografiche.
Ambrogi ha scritto non un romanzo di formazione (nei capitoli finali la vicenda si riduce agli squallidi tentativi di Riccardo di frequentare locali più 'in' nel tentativo parossistico di trovare un'anima gemella), ma una storia di delicata e quasi penosa impasse. E dove a farla da padrone, improvvisamente, non è più il vociare impazzito e goliardico di un numero ristretto di ragazzotti, ma la sensazione quasi tangibile di tutti, e soprattutto di Riccardo, di dover fare i conti col proprio attaccamento territoriale, che si sa, spesso preclude la vita: Dove uno ha studiato fin da ragazzo, dove vi ha visto passare la guerra, dove ha imparato a conoscere quegli importanti fenomeni che sono gli uomini, ecco lì è il paese. Si poteva essere nati al Polo Nord o in Africa e non avrebbe avuto alcun significato.
Le svedesi è un libriccino che andrebbe conservato gelosamente, come quelle vecchie foto di famiglia che mostrano gli anni solo perché sbiadite, ma che mantengono la struggente capacità di abbandono.


L'edizione da noi considerata è:

Silvano Ambrogi
Le svedesi
Feltrinelli - 1959



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