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CLASSICI

Alfredo Ronci

Antimilitarismo? Più che altro, esame di coscienza: “Vent’anni” di Corrado Alvaro.

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Non è la prima volta che trattiamo Corrado Alvaro, e certamente non sarà l’ultima. Ma nell’esaminare la sua produzione ci siamo chiesti: ma è vero quello che dicono i critici più attenti e le maestranze più studiose, e cioè a dire che lo scrittore fu essenzialmente uno dei più grandi del Novecento nei tracconti e un po’ meno nei romanzi? E se tutto questo fosse vero, perché mai noi orchi insistiamo nel presentare i romanzi e non i racconti?
Diceva Walter Pedullà in un pezzo, Le donne ribelli di Corrado Alvaro, nel suo saggio mondadoriano Le armi del comico: “La sua migliore raccolta di racconti – questo lo dicono tutti – è L’amata alla finestra: dove ce ne sono alcuni fra i più belli del nostro Novecento. Infine – questo lo dico io, ma non sono il solo a pensarlo – almeno uno di essi è un capolavoro che sfida i migliori del suo genere nella lingua del Boccaccio, cioè di colui che per primo dette la buona novella: si può essere grandi narratori con i piccoli racconti”.
Tutto bene. Allora ripeto la domanda: perché mai noi orchi insistiamo nel presentare romanzi e non i racconti? Tempo fa scegliemmo L’uomo e forte, ora questo Vent’anni. La risposta comunque è che non c’è niente di critico nella scelta dei pezzi, ma l’uno era una sorta di istanza protofantascientifica del testo (ma molto alla lontana), l’altro è un confronto con situazioni che purtroppo sono diventate anche molto usuali nel nostro tempo. Tutto qua.
Lo stesso Alvaro tenne a precisare quali erano i sentimenti che lo portarono a pubblicare (e a ripubblicare dopo che per molti anni il libro era stato fuori catalogo) Vent’anni. E ce lo spiega così: Questo libro fu scritto in poco più che trenta giorni a Positano, nell’estate del 1930. Doveva essere pronto per uscirenel dicembre dello stesso anno presso la casa Treves. Poiché non si trova più da oltre dieci anni in libreria, lo ripubblico ora come il ricordo d’un altro tempo, che i giovani ignorano e i men giovani ricordano. Siamo in tempi di sconvolgimenti in cui le guerre hanno assunto un altro significato da quello che ebbero fino al 1914. Quale ne sia il significato, ognuno sa nel profondo della propria coscienza. Ma per quanto riguarda gli anni in cui questo libro si riferisce, voglio ricordare un tratto della guerra di allora. I soldati nelle trincee del basso Isonzo, versoil mare, sull’Hermada, vedevano tutte le sere Trieste illuminarsi, e certi giorni arrivava fino a loro il concerto della musica in piazza. A Trieste arrivava il crepitio della fucileria e il fracasso dell’artiglieria ma mai un proiettile turbò quella vita quotidiana che si svolgeva sicura a pochi chilometri dal fronte. E i soldati vivevano tra il fango, i pidocchi,il putridume, e coi tre fichi secchi che per colazione a un certo punto fu quanto poteva dare l’intendenza dell’esercito. Molti soldati morirono per non scomodare la vita della popolazione civile considerata sacra, perché disarmata.
Dunque questo libro si ripresenta al lettore come il ricordo di un’altra civiltà, e credo che se usasse ancora illustrare i libri per mano di qualche incisore o disegnatore come nel secolo scorso, si avrebbe la sorpresa, a cominciare dallo stesso autore, di trovarsi fra le mani un libro in costume.
E’ la storia di Luca Fabio pellegrino e straniero, che dal profondo Meridione contadino, arriva a Firenze, e qui attraverso varie vicissitudine e avventure arriva alla conclusione che la guerra, nonostante tutto, non è solo una questione regionale, ma nazionale. Tra il fango delle tricee e le battute ossessive del fuoco nemico (e la perdita di  Attilio Bandi, personaggio-emblema di una borghesia educata al sacrificio per la patria) ben presto arriva alla conclusione che i conflitti (sì, al plurale) non sono una cosa strettmente necessaria.
Insomma una “battuta” antimilitarista? Come già espresso nel titolo avvertire nel romanzo una forte componente antimilitarista mi sembra francamente una boutade. Ma in Alvaro ci sono altre componenti che fanno di questo storia una vicenda che varrebbe la pena non ripetere. E le parole finali che chiudono il discorso mi sembrano di straziante attualità: Si rimisero in cammino. Camminare voleva dire essere vivi.
Importa indubbiamente tutto quello che è successo in precedenza, ma essere vivi significa acquistare una dimensione nuova. Si sono perse molte occasioni di vivere una vita diversa (Alvaro spesso insiste sul ruolo delle donne) ma quello che conta è la densità poetica che anche il romanzo percorre, ricreando il clima, poi, di una civiltà al crepuscolo.




L’edizione da noi considerata è:

Corrado Alvaro
Vent’anni
Bompiani





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