CLASSICI
Alfredo Ronci
Della rimembranza: “La ferita dell’aprile” di Vincenzo Consolo.
Curioso il caso del libro d’esordio di Vincenzo Consolo. Uscì nel 1963 per Einaudi, ma per una serie di avvenimenti rimase, come si suol dire, carta straccia. Cioè, vendette poco o nulla.
Se ne riparlò anni più tardi, quando lo scrittore fece il botto con Sorriso dell’ignoto marinaio (1976), col tema decisivo del Risorgimento italiano, mancato e tradito, (il ritratto di ignoto dipinto da Antonello lega i destini di un barone scienziato e di un avvocato rivoluzionario, alle prese con la violenza della Storia) che riprendeva la linea di un Verga, di un Pirandello e di un Tomasi.
Qualche critico più attento preferì addirittura fermarsi solo sullo stile del Consolo e sulla sua mania dell’epanalessi (dicesi figura retorica consistente nella ripetizione di una o più parole nello stesso periodo).
Non me ne voglia nessuno, ma spulciando su altre fonti, mi accorgo per esempio che nemmeno Squarotti, pur molto attento alle nuove cose, lo riporta nel suo libro La narrativa italiana del dopoguerra.
Dunque, cosa mai era potuto succedere perché l’esordio di uno scrittore, poi tanto declamato in seguito, avesse potuto registrare una tale conformità di giudizio? Praticamente nulla. Solo una serie di circostanze aveva determinato un esito del genere. Ma una cosa è certa, La ferita dell’aprile è senza dubbio tra i libri più belli usciti in quel periodo (e che periodo!) e uno dei resoconti più brillanti ed incisivi di una giovinezza vissuta tra feste e riti, canti e processioni.
Ma esattamente di cosa parla? Non facile a dirsi, perché il linguaggio usato, un misto tra italiano e siciliano (dialetto che non è come la tecnica di Camilleri, voluto soltanto perché faccia colore, ma vero e proprio stile di vita) a volte stravolge le stessa dinamica degli eventi. Però lo si riassume come appunto una serie di situazioni dove il popolo dei più giovani spia la vita della piccola comunità patriarcale, mimando le convenzioni grottesche degli adulti.
C’è un passo del romanzo in cui, forse sbrigativamente, si può riassumere la centralità di esso: Ci scialammo con le scritte sulla piazza, di calce, di pece e di cinabro, scritte, cancellate e poi riscritte; e per i uri ha da venì Baffone con la colomba della pace sotto il naso, Cristo il primo socialista. W Giuliano ch’ammazza i comunisti.
Per carità sono solo dei curiosi riferimenti (verso la fine del romanzo però c’è un appunto doloroso riferito alla strage di Portella della Ginestra), ma testimoniano comunque dell’appartenenza dello scritto ai tempi che si vivevano.
Siamo in un paese della costa settentrionale della Sicilia, nei primi anni della guerra fredda (lo diciamo noi, convinti che questo appunto può fornire indicazioni ancora più precise sulla temporalità del romanzo) e della crociata anticomunista. Un paese di contadini e di pescatori, stretto fra il mare e le colline. Figura essenziale di questo paesaggio è la gran mole di un istituto religioso, una sorta di orfanotrofio maschile.
Come è stato già detto correttamente, La ferita dell’aprile più che una storia vera e propria è una fuga di immagini essenziali e rivelatrici, che suggeriscono la vicenda più che raccontarla per intero. E Consolo gioca la sua partita sull’inventività di un linguaggio costruito con sapienza artigianale, ispirato dalla dura e a volte folgorante icasticità del dialetto.
Il risultato è un romanzo di scabro lirismo, di un poetico farsi e disfarsi di una gioventù colta nel pieno della sua convincente espressività.
Dice la quarta di copertina dell’edizione del 1977, che sancì il valore definito di Vincenzo Consolo: Apparso nel 1963 nel “Tornasole” mondadoriano di Gallo e Sereni, letto da pochi, La ferita dell’aprile conserva intatte la sua freschezza e la sua originalità.
Lo ripetiamo, non sappiamo con esattezza perché la prima edizione del 1963 fu letta da pochi (e ancor meno recensita), ma sappiamo però come fu accolta successivamente. Rimane il fatto che la prima edizione è quasi introvabile.
Basta la nuova per riparare ai danni.
L’edizione da noi considerata è:
Vincenzo Consolo
La ferita dell’aprile
Einaudi (1977)
Se ne riparlò anni più tardi, quando lo scrittore fece il botto con Sorriso dell’ignoto marinaio (1976), col tema decisivo del Risorgimento italiano, mancato e tradito, (il ritratto di ignoto dipinto da Antonello lega i destini di un barone scienziato e di un avvocato rivoluzionario, alle prese con la violenza della Storia) che riprendeva la linea di un Verga, di un Pirandello e di un Tomasi.
Qualche critico più attento preferì addirittura fermarsi solo sullo stile del Consolo e sulla sua mania dell’epanalessi (dicesi figura retorica consistente nella ripetizione di una o più parole nello stesso periodo).
Non me ne voglia nessuno, ma spulciando su altre fonti, mi accorgo per esempio che nemmeno Squarotti, pur molto attento alle nuove cose, lo riporta nel suo libro La narrativa italiana del dopoguerra.
Dunque, cosa mai era potuto succedere perché l’esordio di uno scrittore, poi tanto declamato in seguito, avesse potuto registrare una tale conformità di giudizio? Praticamente nulla. Solo una serie di circostanze aveva determinato un esito del genere. Ma una cosa è certa, La ferita dell’aprile è senza dubbio tra i libri più belli usciti in quel periodo (e che periodo!) e uno dei resoconti più brillanti ed incisivi di una giovinezza vissuta tra feste e riti, canti e processioni.
Ma esattamente di cosa parla? Non facile a dirsi, perché il linguaggio usato, un misto tra italiano e siciliano (dialetto che non è come la tecnica di Camilleri, voluto soltanto perché faccia colore, ma vero e proprio stile di vita) a volte stravolge le stessa dinamica degli eventi. Però lo si riassume come appunto una serie di situazioni dove il popolo dei più giovani spia la vita della piccola comunità patriarcale, mimando le convenzioni grottesche degli adulti.
C’è un passo del romanzo in cui, forse sbrigativamente, si può riassumere la centralità di esso: Ci scialammo con le scritte sulla piazza, di calce, di pece e di cinabro, scritte, cancellate e poi riscritte; e per i uri ha da venì Baffone con la colomba della pace sotto il naso, Cristo il primo socialista. W Giuliano ch’ammazza i comunisti.
Per carità sono solo dei curiosi riferimenti (verso la fine del romanzo però c’è un appunto doloroso riferito alla strage di Portella della Ginestra), ma testimoniano comunque dell’appartenenza dello scritto ai tempi che si vivevano.
Siamo in un paese della costa settentrionale della Sicilia, nei primi anni della guerra fredda (lo diciamo noi, convinti che questo appunto può fornire indicazioni ancora più precise sulla temporalità del romanzo) e della crociata anticomunista. Un paese di contadini e di pescatori, stretto fra il mare e le colline. Figura essenziale di questo paesaggio è la gran mole di un istituto religioso, una sorta di orfanotrofio maschile.
Come è stato già detto correttamente, La ferita dell’aprile più che una storia vera e propria è una fuga di immagini essenziali e rivelatrici, che suggeriscono la vicenda più che raccontarla per intero. E Consolo gioca la sua partita sull’inventività di un linguaggio costruito con sapienza artigianale, ispirato dalla dura e a volte folgorante icasticità del dialetto.
Il risultato è un romanzo di scabro lirismo, di un poetico farsi e disfarsi di una gioventù colta nel pieno della sua convincente espressività.
Dice la quarta di copertina dell’edizione del 1977, che sancì il valore definito di Vincenzo Consolo: Apparso nel 1963 nel “Tornasole” mondadoriano di Gallo e Sereni, letto da pochi, La ferita dell’aprile conserva intatte la sua freschezza e la sua originalità.
Lo ripetiamo, non sappiamo con esattezza perché la prima edizione del 1963 fu letta da pochi (e ancor meno recensita), ma sappiamo però come fu accolta successivamente. Rimane il fatto che la prima edizione è quasi introvabile.
Basta la nuova per riparare ai danni.
L’edizione da noi considerata è:
Vincenzo Consolo
La ferita dell’aprile
Einaudi (1977)
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