CLASSICI
Massimo Grisafi.
"Fahrenheit 451" è un grande classico.Di Ray Bradbury

Fahrenheit 451 è un grande classico di un certo tipo di fantascienza, secondo solo a “1984” di Orwell. Non è la fantascienza robotica di Isaac Asimov, né quella angosciante e visionaria di Philip Dick, ma la interpretazione lucida e puntuale di quello che potrebbe accadere in un prossimo futuro.
451 gradi fahrenheit è la temperatura a cui la carta inizia a bruciare: nel mondo distopico previsto da Bradbury, infatti, i libri vengono sistematicamente bruciati: gli autori sono calendarizzati (il mercoledì si dà fuoco a Melville, il venerdì a Whitman), oppure bruciati in blocco se vengono scovati i posti dove sono tenuti nascosti. E chi è che si occupa di appiccare il rogo?
Tutti noi conosciamo quel motto quasi banale che ci ripetiamo per descrivere le nostre misere parabole umane: “si nasce incendiari e si muore pompieri”. Ecco, qui è esattamente il contrario: il corpo dei pompieri, nato per spegnere gli incendi, è diventato esso stesso fonte di distruzione attraverso il fuoco. Le pompe dei loro carri non spruzzano più acqua benefica ma cherosene incendiario.
Oddio, l’idea, se non di bruciare i libri, almeno di censurarli, è cosa antica. Ci sarà sempre “un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete” a dirci che è giusto così: ma la strategia sottintesa dalla società immaginata da Bradbury è quella non solo di impedire di leggere, ma di far sì che il non-sapere e la non-scienza siano veicolati dal potere attraverso i media (oggi li chiamiamo così), orrendi mostri che ci intrattengono ventiquattr’ore su ventiquattro dalle pareti delle nostre case trasformate in maxi schermi.
Guy Montag è il pompiere protagonista del libro. Lui ha una moglie, che moglie non è; una casa, che casa non è; un lavoro, che lavoro non è. Queste cose lui forse le sa, ma sono dentro di sé. Nel profondo. Per farle emergere c’è bisogno che qualcuno intervenga e che scoperchi il vaso.
Quel qualcuno sarà un’adolescente sbarazzina, completamente disallineata con la società e con le persone che la abitano; una pazza visionaria che annusa l’aria, guarda le stelle, parla con le piante: è solo per caso che incontra e affronta Guy? Bradbury è fantastico nel descrivere il modo con cui i due si conoscono e si parlano. Lui, omone rude e avvezzo alla distruzione, il fireman con il simbolo della salamandra addosso, e lei, Clarisse, che svolazza di notte come una lucciola.
È lei che ingenuamente (?) gli domanda se ricorda che un tempo i pompieri spegnevano gli incendi anziché appiccarli, perché è così che dice un suo zio; e lui che risponde: “no, assolutamente! Noi pompieri abbiamo sempre bruciato cose, da quando le case sono diventate ignifughe non c’è stato più bisogno di spegnere niente”. Perché è proprio questo quello che un certo tipo di potere fa: non solo cambiare le cose, ma farci dimenticare di come le cose erano davvero un tempo. E Clarisse, ragazzina ribelle, invece fa questo: insinua il dubbio in Guy. Il sospetto. Quel sassolino fastidioso nella scarpa che ci fa chiedere se sia meglio toglierlo o far finta di niente.
E Montag, il sassolino, alla fine deciderà di toglierselo. La cosa, naturalmente, non sarà indolore ma, per sapere come, dovrete leggere il libro. Quello che posso dirvi è che sarà grazie anche all’aiuto di un vecchio saggio, tale Faber (il nome ricorda qualcuno, no?), che la coscienza del fireman integerrimo comincerà a ridestarsi, passo dopo passo, in un crescendo di situazioni descritte stupendamente dall’autore.
Lo ammetto, ho un debole per Ray Bradbury: l’ho conosciuto leggendo “Il popolo dell’autunno” da adolescente e da allora non l’ho mollato più. Non sono quindi di parte ma ritengo che altri, ben più importanti di me, la pensino allo stesso modo. Una scrittura che deborda nella poesia, uno scorrere continuo di metafore e d’immagini che ti entrano dentro così come fanno i sogni, che poi ti lasciano quel senso di stupore al risveglio.
Tornando al libro, c’è nell’aria una guerra imminente che alla fine scoppierà e non lascerà più niente come era prima. Il messaggio che invece il libro ci lascia alla fine, la morale potremo dire, è che l’uomo, in buona sostanza, è più grande di qualsiasi potere. La sua memoria, il suo sapere, la conoscenza vinceranno su tutto. Anche senza più i libri, anche senza più le tipografie adatte a stamparli.
Basterà solo imparare i testi a memoria. Fantastico, no? Essere noi stessi dei libri viventi. La cosa non è certo nuova, a me ricorda tanto i canti di Omero tramandati di voce in voce, di bocca in bocca. E noi lo sappiamo com’è finita: niente di tutto quello è andato perdu
L'edizione da noi considerata è:
Ray Bradury
Farhenheit 451
Oscar Mondadori
451 gradi fahrenheit è la temperatura a cui la carta inizia a bruciare: nel mondo distopico previsto da Bradbury, infatti, i libri vengono sistematicamente bruciati: gli autori sono calendarizzati (il mercoledì si dà fuoco a Melville, il venerdì a Whitman), oppure bruciati in blocco se vengono scovati i posti dove sono tenuti nascosti. E chi è che si occupa di appiccare il rogo?
Tutti noi conosciamo quel motto quasi banale che ci ripetiamo per descrivere le nostre misere parabole umane: “si nasce incendiari e si muore pompieri”. Ecco, qui è esattamente il contrario: il corpo dei pompieri, nato per spegnere gli incendi, è diventato esso stesso fonte di distruzione attraverso il fuoco. Le pompe dei loro carri non spruzzano più acqua benefica ma cherosene incendiario.
Oddio, l’idea, se non di bruciare i libri, almeno di censurarli, è cosa antica. Ci sarà sempre “un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete” a dirci che è giusto così: ma la strategia sottintesa dalla società immaginata da Bradbury è quella non solo di impedire di leggere, ma di far sì che il non-sapere e la non-scienza siano veicolati dal potere attraverso i media (oggi li chiamiamo così), orrendi mostri che ci intrattengono ventiquattr’ore su ventiquattro dalle pareti delle nostre case trasformate in maxi schermi.
Guy Montag è il pompiere protagonista del libro. Lui ha una moglie, che moglie non è; una casa, che casa non è; un lavoro, che lavoro non è. Queste cose lui forse le sa, ma sono dentro di sé. Nel profondo. Per farle emergere c’è bisogno che qualcuno intervenga e che scoperchi il vaso.
Quel qualcuno sarà un’adolescente sbarazzina, completamente disallineata con la società e con le persone che la abitano; una pazza visionaria che annusa l’aria, guarda le stelle, parla con le piante: è solo per caso che incontra e affronta Guy? Bradbury è fantastico nel descrivere il modo con cui i due si conoscono e si parlano. Lui, omone rude e avvezzo alla distruzione, il fireman con il simbolo della salamandra addosso, e lei, Clarisse, che svolazza di notte come una lucciola.
È lei che ingenuamente (?) gli domanda se ricorda che un tempo i pompieri spegnevano gli incendi anziché appiccarli, perché è così che dice un suo zio; e lui che risponde: “no, assolutamente! Noi pompieri abbiamo sempre bruciato cose, da quando le case sono diventate ignifughe non c’è stato più bisogno di spegnere niente”. Perché è proprio questo quello che un certo tipo di potere fa: non solo cambiare le cose, ma farci dimenticare di come le cose erano davvero un tempo. E Clarisse, ragazzina ribelle, invece fa questo: insinua il dubbio in Guy. Il sospetto. Quel sassolino fastidioso nella scarpa che ci fa chiedere se sia meglio toglierlo o far finta di niente.
E Montag, il sassolino, alla fine deciderà di toglierselo. La cosa, naturalmente, non sarà indolore ma, per sapere come, dovrete leggere il libro. Quello che posso dirvi è che sarà grazie anche all’aiuto di un vecchio saggio, tale Faber (il nome ricorda qualcuno, no?), che la coscienza del fireman integerrimo comincerà a ridestarsi, passo dopo passo, in un crescendo di situazioni descritte stupendamente dall’autore.
Lo ammetto, ho un debole per Ray Bradbury: l’ho conosciuto leggendo “Il popolo dell’autunno” da adolescente e da allora non l’ho mollato più. Non sono quindi di parte ma ritengo che altri, ben più importanti di me, la pensino allo stesso modo. Una scrittura che deborda nella poesia, uno scorrere continuo di metafore e d’immagini che ti entrano dentro così come fanno i sogni, che poi ti lasciano quel senso di stupore al risveglio.
Tornando al libro, c’è nell’aria una guerra imminente che alla fine scoppierà e non lascerà più niente come era prima. Il messaggio che invece il libro ci lascia alla fine, la morale potremo dire, è che l’uomo, in buona sostanza, è più grande di qualsiasi potere. La sua memoria, il suo sapere, la conoscenza vinceranno su tutto. Anche senza più i libri, anche senza più le tipografie adatte a stamparli.
Basterà solo imparare i testi a memoria. Fantastico, no? Essere noi stessi dei libri viventi. La cosa non è certo nuova, a me ricorda tanto i canti di Omero tramandati di voce in voce, di bocca in bocca. E noi lo sappiamo com’è finita: niente di tutto quello è andato perdu
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