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Stefano Torossi

GIULIO BRICCIALDI 1818 – 1881

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Giulio nasce e muore in una gran confusione di 1 e di 8 che si intrecciano (1818 – 1881). Curioso, no? Non vuol dire niente, naturalmente; però aggiunge bizzarria al personaggio.
Fin dall’inizio è un virtuoso sopraffino grazie alle lezioni del padre. Il quale lo lascia orfano presto. E cosa succede al ragazzo? Succede che, siccome la mamma, vedova, ha deciso di farlo diventare prete, lui scappa di casa e da Terni se ne va a Roma, dove, evidentemente dotatissimo, a soli quindici anni diventa “Professore strumentista di flauto” a Santa Cecilia e si conquista fin da subito la qualifica di Principe dei flautisti.
Con queste credenziali gli riesce facile diventare l’insegnante del Conte di Siracusa, fratello del Re Ferdinando II di Borbone, a Napoli, e poi di allievi altrettanto altolocati a Milano e a Vienna.
Da qui parte una strabiliante carriera di virtuoso che lo porta in giro come una trottola prima in Italia, poi in Europa e perfino in America.
Nel ‘78 ottiene la cattedra di flauto all’Istituto Musicale di Firenze, dove rimane fino alla morte circondato da una corte di ottimi allievi che ha formato lui stesso.
Per anni è anche direttore della banda di Fermo nelle Marche e la porta a livelli di perfezione rimasti nella leggenda.

Ma oltre che solista è anche un meccanico dello strumento, tanto è vero che, dopo averne perfezionato il timbro e l’intonazione, crea un’alternativa al modello di Boehm, inventato da poco, con l’aggiunta della leva del si bemolle che facilita di molto l’esecuzione di questa nota, e che da allora si chiama leva Briccialdi.
Però, non si sa come mai, non riesce a brevettare questa sua miglioria né a presentarla alla Esposizione di Londra del 1851, e alla fine non ce la fa a scalzare il rivale e il Boehm rimane trionfatore sul campo e nel mercato.
La disputa però non si placa e va avanti per anni. Nel 1873 la Gazzetta di Napoli pubblica una serie di articoli di lode dello strumento di Boehm e di critica di quello di Briccialdi, accusato di debolezza e di diseguaglianza di suono, di scarsa intonazione e soprattutto di essere costruito in metallo “per garantirsi dagli spacchi dovuti ai fori più grandi di quello di legno e all’umidità”, come dichiarato dal suo costruttore.
Briccialdi risponde con una memoria alla quale segue un esperimento dell’Istituto Musicale di Firenze che si conclude con una dichiarazione di perfetta efficienza del suo flauto e con l’enunciazione di una legge (alla quale era già arrivato Adolphe Sax, l’inventore del sassofono, qualche anno prima) che dice: “Negli strumenti a fiato ciò che costituisce il timbro, più che la materia è la forma e il modo per il quale l’aria è posta in vibrazione in un tubo sonoro”. Vuol dire che legno o metallo non fanno differenza.
Il suo nome oggi ce l’hanno il conservatorio Briccialdi di Terni e l’asteroide 7714 Briccialdi. (strana faccenda questa di dare nomi di persone importanti agli asteroidi).
Insomma il Paganini del flauto (così anche lo chiamano) è un solista perfetto, un autore fecondo, un ottimo insegnante e anche un ardente patriota (pare che abbia girato i guadagni di una nutrita serie di concerti a Garibaldi e ai suoi Mille, della cui causa è un fervente sostenitore).
Di sicuro è anche una persona per bene, ma noi ce l’abbiano con lui per una tortura alle orecchie che ci si ripresenta a ogni festa del santo patrono, a ogni concertino di bambini, a ogni spettacolo per dilettanti allo sbaraglio, dove inevitabilmente qualcuno suonerà il motivetto più popolare e più fastidioso della storia della musica, un temino che, Dio lo perdoni, il nostro Briccialdi ha composto e ci ha lasciato in eredità nei secoli dei secoli per tormentarci fino allo sfinimento.
Il “Carnevale di Venezia”.



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