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CINEMA E MUSICA

Adriano Angelini Sut

I Depeche Mode confezionano un album politico. E si dimenticano della musica.

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Nell'apprestarmi a scrivere di una delle mie band preferite ho dovuto fare parecchio esercizio zen. Non è facile stroncare in questi casi. Soprattutto quando leggi in giro recensioni entusiaste su un album che a mio avviso fa toccare loro (quasi) il fondo.
Andiamo con ordine. Il singolo annunciato con tanto di conferenza stampa a Milano, Where's the Revolution è l'immediato manifesto politico di una band che, negli anni'80, anche se faceva album politicizzati (e non politici) aveva saputo rinnovare l'onda new wave con un mix di elettronica e pop d'autore. Il brano in questione è una noiosissima marcetta in cui Martin Gore (che scrive i testi), dice che l'umanità non si è ancora evoluta. E vabbè. Il fil rouge che unisce tutti i brani di questo Spirit, 14esimo in studio, è l'insostenibile utilizzo dei coretti in quasi ogni ritornello, a rovinare praticamente tutto, e l'accenno a basi elettroniche degne del loro miglior periodo, che però poi muoiono nel mare dell'evidente assenza di ispirazione.
Un pezzo d'apertura come Going Backwards grida vendetta. L'incipit è identico a In Chains (pezzo d'apertura di Sound of The Universe) e nulla aggiunge all'altro se non il richiamo al fatto che lì la voce di Gahan brillava del suo immenso (e qui no). Dov'è la rivoluzione? Si chiede il trio di Basildon. Ce lo chiediamo anche noi. Il problema è sempre lo stesso, quando i musicisti vogliono fare i politici tirano fuori boiate. Un po' come se Donald Trump o Vladimir Putin decidessero di entrare in studio per confezionare una bella hit. Sai le risate.
The Worst Crime ed Eternal sono riempitivi che potevano tranquillamente risparmiarsi. Inutile giocare all'impegno. Non basta una bella chitarra elettrica che fa da tappeto alla voce di Dave, non basta una spruzzatina di synth blues per fare un bel brano. La noia, mortale noia pervade l'atmosfera musicale di Spirit. Cover me fa un'eccezione. Risalta su tutte le lente dell'album per l'incalzante finale. Ma non basta. O voi fan dell'ultima ora dei DM, che parlate di disco intimista, andatevi ad ascoltare Black Celebration e poi ne riparliamo di ispirazione oscura, di mood nero. Scum poteva essere un bel singoletto se Gore non si faceva prendere dalla solita abulia compositiva, quella che ultimamente non gli permette di sfornare più un singolo ballabile. (Do un consiglio a Gore, ascoltasse il nuovo album dei New Order per capire come a sessant'anni si possono sfornare capolavori dance senza ammorbare).
La crisi di creatività di questo album raggiunge l'apice con No More e Poison Heart. Viene da chiedersi che senso ha includere in un qualsiasi album pezzi così insulsi. You Move e So Much Love riaccendono, a noi fan incazzati neri, una piccola speranza di ritrovare il suono del passato, quanto meno un assaggino à la Violator. Anche qui, tante buone intenzioni. Un discreto ritmo, l'assenza, per fortuna, dei coretti e delle marcette rivoluzionarie. E un synth che riassomiglia ai DM.
Che siano diventati anziani e arrabbiati col mondo è un problema loro. Non nostro, che vorremmo semplicemente ascoltare musica. C'è Fail che è un’ottima ballata à la Gore, a tratti intensa come l'inimitabile Somebody, ma non basta. Non basta perché nei tempi d'oro poteva ben figurare come un B side di qualche loro capolavoro. Mentre oggi dobbiamo accontentarci. C'è, infine, Poorman che parte à la Constrution Time Again e si riduce al coretto e alla marcetta. Pietà di noi.
Tutte le “testate” musicali (piccole e grandi, on line e non on line), tutti i giornalini con i soliti critici schierati politicamente hanno parlato più o meno bene di questo che a mio avviso è il loro album peggiore dopo Exciter. Non avevamo dubbi. Basta un accenno alla rivoluzione, di questi tempi, e tutti vanno in orgasmo. Mentre io vado a riprendere Black Celebration e a crogiolarmi col vero mood nero della loro musica sublime che fu.           

Spirit
Depeche Mode
2017 Columbia Records



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