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CLASSICI

Alfredo Ronci

Il volere e il non volere: “Deposito celeste” di Carlo Villa.

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Nella mia personale Storia della letteratura italiana, Carlo Villa è indicato come uno tra gli altri narratori sperimentalisti. Fa gruppo con un bel manipolo di benefattori: Luigi Piccioli, Giancarlo Marmori, Giorgio Celli, Giuseppe D’Agata (quasi tutti già verificati da noi orchi), che andrebbero ricordati per il loro sperimentalismo linguistico e quasi surrealista. E che hanno lasciato un buon segno nella nostra storia letteraria.
Carlo Villa in realtà esordisce come poeta ed esattamente con un volume, Il privilegio di essere vivi, del 1962, che ebbe, tra l’altro, la prefazione di P.P.Pasolini, che indicava nel suo linguaggio “un altro caso di inquietudine linguisticamente abrasivo, sconvolgente”.
Solo nel 1964 il nostro si produce in prosa, pubblicando La nausea media che ebbe apprezzamenti addirittura da Vittorini e da Michel Butor.
Deposito celeste è del 1967, anno particolarissimo e che dà lo spunto al Villa di prodigarsi in una serie di prodezze lessicali e verbali che faranno la sua parziale fortuna e che, al di là di certe scuole di pensiero, lo accosteranno agli scrittori sperimentalisti.
Si può fare già un esempio di quel che diciamo: “Anche nei sogni mescolo facilmente ragazze e roditori, e vengono fuori creature polipode, chiome che grondano su caloche a spillo, cule di gomma che recano a spasso sorci vischiosi, tenendolo a guinzaglio; regatrici e rodigazze, inarcate come trombe, per meglio mostrare la chiaverina; gonfi cacetti impacciati da macrosomie e gravidanze a termine; troie che battono il marciapiedi, una volta finita la quindicina; cioè, quando le ho toccate in qualche modo, le scalo di categoria: una lucidatina alle costole pallute e latticine e rimbocco loro il paniere (una volta placato il cavallo da dove mi fugge l’anima”.
Dunque neologismi e sperimentazione, dove però l’intreccio, come accaduto per altri scrittori di mestiere ed intellettuali, non si perde, ma mantiene la sua forma.
Ma di cosa parla Deposito celeste? Potremmo partire da una definizione che il Villa dà del protagonista principale; “… non sono certo il tipo che crede nella famiglia”. Infatti il protagonista del romanzo non sopporta suo padre, assorto nei suoi traffici di commerciante di immagini sacre, non sopporta la madre allarmata e confusa e nemmeno le sue sorelle e suo fratello evasivi ed assenti (soprattutto il maschio). Ma il protagonista può davvero sfilare fra gli innumerevoli incompresi della società  non rivoluzionaria o è semplicemente uno sfaccendato di alto lignaggio? Da come si esprime e da quello che cova sembrerebbe un velleitario visionario. Non si preoccupa, per esempio, di “orinare nel lavabo” o che avrebbe “una indicativa predisposizione nello spirito all’affogare e ridurmi a disagio. Che in partenza sia garantito perdermi” oppure non ha nessun problema ad ammettere che certe “cose” lo attraggono: “Nei parchi pubblici rimango incantato alla vista di vecchi assorbenti segnati longitudinalmente, di profilattici stiacciati: documenti anche questi, per quanto sozzi, e che solo un istintivo gesto di difesa fisica non mi permette di raccogliere e conservare”.
E’ stato detto di lui che al confine fra opposte sponde fa contrabbando di sostanze proibite e di forme che ancora non circolano nella nostra letteratura. Diciamo… forse. Forse perché la sostanza che il Villa sceglie per esprimersi non è certamente consona ad un linguaggio più moderato. Certo è che ai giorni nostri, certe lamentazioni quotidiane e certi sbuffi architettati lasciano un po’ il tempo che trovano.
Ma la sua letteratura va: e i suoi programmi di stragi (in ambito non solo famigliare), parricidi, profanazioni, olocausti, stupri e incesti, realizzati con sorprendente minuzia del dettaglio, non solo restano lettera morta, ma lo invischiano ancora di più nell’opprimente educazione dei padri.
E quel che resta però è una sconfitta dettata più dal destino che da una voluta ambizione di scontro: quando crede di poter eliminare colui che gli rende la vita impossibile, il padre muore. Di malattia. E a lui non resta che scavare all’interno (qualsiasi interno) “Cerco di scavarlo nell’interno, con l’intento di trovare delle altre monetine, ma ne esce solo un liquame, tipo il ripieno dei cioccolatini”.


L’edizione da noi considerata è:

Carlo Villa
Deposito celeste
Einaudi




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