RECENSIONI
Giorgio Falco
L'ubicazione del bene
Einaudi, Pag. 141 Euro 16,00
Un lettore intemperante davanti all'incipit del secondo libro di Giorgio Falco, L'ubicazione del bene, potrebbe quasi credere di trovarsi di fronte a una rappresentazione manieristica, alla descrizione di un décor infernale che indulge al capriccio: I topi annusano di notte lattine compresse nell'asfalto, muovono baffi, fiutano ruote, risalgono nei motori delle auto parcheggiate tra batterie, liquidi di freni e di raffreddamento, imbevono code nell'olio semisintetico, costeggiano marciapiedi, pronti a rifugiarsi nei tombini. Orbene, le pagine successive smentiscono l'eventuale impressione ingannevole e cambiano di segno all'intero lavoro. Che riguarda l'inferno sì, ma come luogo domestico a noi molto familiare perché è quello che abitiamo nelle nostre depresse, sfilacciate periferie irriducibili a una significazione ancora umana. Questi animali – dice Falco - sono parte integrante della narrazione, irrompono, la modificano, sono il correlativo oggettivo dei personaggi. Io aggiungerei, sperando di non forzare le intenzioni dell'autore, che nascondendosi nello stesso spazio in cui vivono gli umani, le bestie ne denotano l'aspetto globale di inganno auto-organizzato: il mondo che ci siamo scelti, che ci rappresentiamo, del quale non sappiamo fare a meno è falso perché la sua faccia notturna è occultata, specie quando si affanna a disegnarci un'idea del bello che è la sola oggi a portata di mano dei più: il brutto delle villette a schiera disseminate attraverso anonimi agglomerati urbani confezionato da chi decide per tutti. Si direbbe che oggi il demiurgo è un cosmico agente immobiliare. E lo scrittore non è dio, lo scrittore è semmai Lucifero che ce ne mostra il fallimento.
La presenza inconciliata e mai doma delle bestie, nonostante patetici tentativi contrari, sembra un contrappunto ribelle alla dispersione urbanistica – umana - che è lo spazio slabbrato in cui si delineano le vicende di questo libro. Precisamente a Cortesforza, immaginario hinterland milanese, piccolo comune in cui si addensano rimanendo disperse e reciprocamente ostili vite inguaribili di famiglie rotte, di coppie subito scoppiate, di imprenditori avventizi di cupa inettitudine che non capiscono il mercato. Il mercato è tergiversare (...) è saltare il pagamento con un fornitore. Dilazionare. Minimizzare. Usare diminutivi e vezzeggiativi (...) lettere di sollecito. Carte intestate degli studi legali. Ma il mercato è il mondo così come gli è stato raccontato, a questi personaggi. Sono impossibilitati a fare altro. A immaginarlo, un mondo diverso. Costretti tutti come sono in un presente pesante come l'acciaio, vissuto come se fosse condizione di natura, al punto che nemmeno la morte sembra riguardarli mai da vicino. Nei luoghi come Cortesforza la morte sembra un'anomalia abusiva, scrive Falco in uno di questi racconti (al solito, per incrementarne le vendite, qualcuno lo ha definito romanzo). Le case - il bene materiale - in cui cercano rifugio dal planetario apparato aziendale che ha sostituito la vita si disfano e si macerano nell'umidità: formiche, termiti, scarafaggi brulicano nei muri. La rabbia attonita di un fallimento costante, l'esito beffardo di una corsa senza senso non sono la storia di un personaggio particolare ma il destino cui sembra essersi consegnata la piccola ma significativa porzione d'Occidente che è raccontata in queste pagine.
Intorno, l'opacità astiosa di una banale tangenziale, (non) luogo di un passare senza fine (sostantivo da intendersi in entrambi i generi), di catatonica fissità violentemente interrotta da piccole esplosioni di furore in dialoghi compressi come i protagonisti, che sono protagonisti di nulla se non di una coazione a ripetere: vite replicate secondo i modelli dettati dalla narrazione pubblicitaria sedimentata nella pelle di cemento di un paese come tanti, ormai, senza storia, ove il bene – morale - non sembra ubicato da nessuna parte. Un libro importante, necessario. Che rattrista, ma nello stesso tempo rassicura ancora una volta sulla forza della letteratura: che sta nel nominare le cose con la lingua giusta, atto conoscitivo primo fra gli altri, approssimazione alla verità. Il contrario della pubblicità.
di Michele Lupo
La presenza inconciliata e mai doma delle bestie, nonostante patetici tentativi contrari, sembra un contrappunto ribelle alla dispersione urbanistica – umana - che è lo spazio slabbrato in cui si delineano le vicende di questo libro. Precisamente a Cortesforza, immaginario hinterland milanese, piccolo comune in cui si addensano rimanendo disperse e reciprocamente ostili vite inguaribili di famiglie rotte, di coppie subito scoppiate, di imprenditori avventizi di cupa inettitudine che non capiscono il mercato. Il mercato è tergiversare (...) è saltare il pagamento con un fornitore. Dilazionare. Minimizzare. Usare diminutivi e vezzeggiativi (...) lettere di sollecito. Carte intestate degli studi legali. Ma il mercato è il mondo così come gli è stato raccontato, a questi personaggi. Sono impossibilitati a fare altro. A immaginarlo, un mondo diverso. Costretti tutti come sono in un presente pesante come l'acciaio, vissuto come se fosse condizione di natura, al punto che nemmeno la morte sembra riguardarli mai da vicino. Nei luoghi come Cortesforza la morte sembra un'anomalia abusiva, scrive Falco in uno di questi racconti (al solito, per incrementarne le vendite, qualcuno lo ha definito romanzo). Le case - il bene materiale - in cui cercano rifugio dal planetario apparato aziendale che ha sostituito la vita si disfano e si macerano nell'umidità: formiche, termiti, scarafaggi brulicano nei muri. La rabbia attonita di un fallimento costante, l'esito beffardo di una corsa senza senso non sono la storia di un personaggio particolare ma il destino cui sembra essersi consegnata la piccola ma significativa porzione d'Occidente che è raccontata in queste pagine.
Intorno, l'opacità astiosa di una banale tangenziale, (non) luogo di un passare senza fine (sostantivo da intendersi in entrambi i generi), di catatonica fissità violentemente interrotta da piccole esplosioni di furore in dialoghi compressi come i protagonisti, che sono protagonisti di nulla se non di una coazione a ripetere: vite replicate secondo i modelli dettati dalla narrazione pubblicitaria sedimentata nella pelle di cemento di un paese come tanti, ormai, senza storia, ove il bene – morale - non sembra ubicato da nessuna parte. Un libro importante, necessario. Che rattrista, ma nello stesso tempo rassicura ancora una volta sulla forza della letteratura: che sta nel nominare le cose con la lingua giusta, atto conoscitivo primo fra gli altri, approssimazione alla verità. Il contrario della pubblicità.
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