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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Antonio Chisari

La finestra piccola

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«La finestra piccola! Chiudi la finestra piccola!»



Una piccola apertura verso l'esterno, situata nel nostro pianerottolo, non era neanche una vera finestra.

Quando qualcuno diceva "finestra piccola" era ovvio che si riferiva sempre a quella finestra. Era situata esattamente al centro della parete del pianerottolo, di fronte alle scale. Le due porte dei nostri appartamenti, il nostro e quello dei nonni, erano una di fronte all'altra. E quando si andava da un appartamento all'altro non era raro che qualcuno chiudesse la finestra piccola quando era aperta, o la aprisse quando stava chiusa. Ognuno aveva i suoi buoni motivi per farlo. Freddo, caldo, vento, pioggia, rumore, abitudine.

Il pianerottolo era il luogo in cui ci si riposava appena tornati da scuola, dal lavoro, da una passeggiata. Si gettava via lo zaino o la borsa e ci si scaraventava sopra il divano situato proprio sotto la finestra piccola, come se la stanchezza non potesse attendere neppure un altro minuto, quello necessario a prendere le chiavi e aprire la porta di casa. Oppure si poggiavano le buste della spesa per terra, ci si sedeva lì, e non ci si rialzava per venti minuti, anche mezz'ora a volte, fregandosene se la roba da mettere in frigo andasse a male. A natale lì ci mettevamo l'albero con tutti i regali, a volte anche il presepe. Bastava spostare appena il vecchio divano che vi alloggiava, e sull'angolo c'era spazio anche per loro.

Era lì che giocavamo da bambini. Spesso invitavo i miei amici e ce ne stavamo seduti su quel divano per ore. Ci saltavamo sopra, fingevamo che fosse la porta di un campo da calcio, all'occorrenza quel luogo si trasformava persino in una platea stracolma di persone in delirio, in attesa che l'artista di turno li deliziasse con la sua performance. A volte eravamo cantanti, altre attori, ballerini, presentatori e concorrenti di quiz.

Inutile dire che casa mia e quella dei nonni era come se fossero un'unica casa. Pranzavo spesso dai nonni. Alle sette, cascasse il mondo, guardavamo sempre la tv insieme, di solito c'era La ruota della fortuna. Dopo ritornavo a casa mia.



Stamattina sono tornato qui. Mia nonna mi ha salutato come se mi avesse visto appena il giorno prima. In realtà non ci vediamo da tanto tempo. Mi dice di sedermi, mangiare qualcosa, in questo non è cambiata affatto. Eppure le ho sempre detto non mi piace che mi si dica quando e dove devo mangiare. Sono in grado di capire da solo se ho fame. Lei, però, è come se vedendomi mangiare fosse contenta.

Sta preparando un'insalata di pomodori. Li taglia a pezzettini piccolissimi, tutti identici. Dopo un po' prende una forchetta dalla tasca del suo grembiule, quello che indossa sempre, e inizia a mangiare, lentamente.

Perché però mangia sul pianerottolo? perché non entriamo in casa? Oltretutto è in piedi. Potrebbe almeno sedersi sul divano e mangiare lì.

«Non entriamo in casa?»

«Tra un attimo. Finisco prima di mangiare».

«Perché non ti siedi sul divano?»

«Non posso».

«Non puoi? Che significa che non puoi?»

«Non lo vedi?»

«Cosa?»

«Direi piuttosto chi. Voltati».

Solo allora lo vedo. Eppure ero lì da, chissà, dieci o venti minuti. Non mi ero accorto di quel piccolo essere umano. Immobile, silenzioso. Dormiva.

«Prendilo in braccio».

«Posso?»

«Certo».

«E se si sveglia?»

«No, dorme come un sasso. Non si sveglierà».

Lo accolgo tra le mie braccia, facendo molta attenzione, forse più di quella necessaria. È una bella sensazione quella che ti trasmette un'altra persona che dorme così vicina a te.

L'ho rimesso sul divano dopo, anche se non mi sembrava un luogo sicuro in cui far dormire un bambino così piccolo. E se si svegliava? Se si muoveva nel sonno?

Poteva cadere a terra. Ho riflettuto un attimo su questa eventualità, poi ho pensato che non poteva accadere nulla. Era in un sonno così profondo e calmo. Il suo respiro era un suono quasi magnetico. Quando ero piccolo mi ero addormentato centinaia di volte su quel divano. Ci si dormiva bene.

Poco importa se non sapevo chi fosse quel bambino e tanto meno di chi fosse. Non era necessario saperlo. Sembrava felice.

Non li ho guardati i suoi occhi.



Una voce, mia nonna.

«La finestra piccola! Chiudi la finestra piccola!»

«Perché? C'è persino il sole. Guarda».

«È meglio chiuderla, dammi ascolto. Io torno dentro. Ho delle cose da fare. A dopo».

«Ok, fatto, l'ho chiusa. Io ora dovrei andare, ero solo passato a salutarti...»

«Ma cosa dici? Tu vivi qui».

«No, nonna, qui ora ci vivi solo tu... Davvero, devo andare. Chi rimane con il bambino? Non puoi lasciarlo da solo».

«Perché no? È tranquillo, guardalo. Starà bene».

«Io vado allora...»

«Ma dove vai? Tua madre e tuo padre sono di là,... e di qua c'è il nonno che vorrà salutarti. È da ieri che non vi vedete. Ora sta riposando».

«Il nonno? Ma il nonno è...»

«E comunque non ti preoccupare per il bambino. Non hai ancora capito?»

«Cosa?»

«Nulla, tesoro. Nulla».



Che sia davvero tutto come prima?



«Beh, allora rientro in casa».

«Bene! Ciao tesoro! A tra poco!»

Entro in casa mia. Gli oggetti, i quadri, tutto è come sempre, anche le foto all'ingresso. Solo che non c'è nessuno. Ovvio.

Vado a casa di nonna. Saluto il nonno e poi vado. Chissà cosa le è preso alla nonna, era così convincente che quasi le credevo.

Il bambino è ancora lì, sul divano del pianerottolo. Dorme.

«Nonna? Sono io. Saluto il nonno e poi vado...Nonna?»

Non c'è. Che strano. Sparita. Vedo sul tavolo della cucina il piatto con i pomodori, tagliati a pezzettini piccolissimi. La forchetta è per terra. Esco.

Sul pianerottolo il bambino non c'è più.



La finestra piccola è di nuovo aperta. l'aria fredda che filtrava, pungente, mi ha svegliato.

Il divano. Mi sono addormentato, non sono neanche entrato in casa. Non sento il bisogno di entrarci, mi basta venire qui e restarmene nel pianerottolo, sdraiato sul vecchio divano. Da quando ho ereditato la casa dei nonni ci vengo spesso, a riflettere, quando mi capitano cose a cui non riesco a dare una risposta. E ora ho la risposta alla domanda che mi ero fatto.

Sei pronto? Si, lo sono.



Il telefono. È Marta.

«Ciao».

«Sono stata dal medico».

«E...?»

«E non sono incinta».

«Che significa?»

«Era un falso allarme».

Lacrime. Tu-tu-tu-tu-tu.

«Marta!»

Riprovo a chiamarla. Niente. Ha staccato il cellulare, è comprensibile.

Qui non ho più nulla da fare, posso andare. Chiudo la finestra piccola. Poi esco, entro in macchina. Metto in moto, torno a casa, adesso so finalmente qual' è.

Marta è rientrata, sonnecchia sulla poltrona. Le accarezzo la fronte, poi sento la sua mano che mi tira il maglione. Vuole che resti lì con lei, così la abbraccio, si riaddormenta.

Sì, è davvero una bella sensazione quella che ti trasmette un'altra persona che dorme così vicina a te. Soprattutto se si è, ormai, una cosa sola.





Antonio Chisari



Nato a Catania il 3 luglio 1987. Collabora con riviste letterarie e blog; il suo spazio personale è scrittidiordinariafollia.blogspot.it





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