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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Pina D'Aria

Quando mio cugino non morì

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Quando l’estate prende un odore particolare te lo porti addosso per tutta la vita. Il mio cane aveva un bel nome: l’avevo chiamato Tarall ed era il mio assistente alla manovella della macchina per stritolare i pomodori bollenti. Proprio il pungente odore di conserva mentre l’acido dei sughi mi correva sulle braccia, caratterizzava l’odore dell’estate. Oggi non avverto quell’odore provenire dalle terrazze e dai vicoli, annuso l’aria che non sa di pomodoro caldo  schiacciato e solo dalla dimensione del ricordo come da una falla nel cerchio della memoria, tornano i brusii, l’afa gialla e collosa, gli effluvi della polenta rossa da stipare nei vasi e nelle bottiglie. Mia madre comandava la rumba e sosteneva di essere la sola a sobbarcarsi il lavoro lamentandosi del fatto che nessuno l’aiutasse a dovere. In realtà ognuno aspettava pronto a prendere i suoi ordini, comprese le sorelle maggiori: zia Liviana e zia Florina detta Flo. Le sorelle di mia madre arrivavano da lontano e non rinunciavano ai tacchetti e ai vestitini indossati persino sotto il sinale schizzato di rosso. Anche la mamma si distingueva per questa particolarità della famiglia Morelli di essere sempre a posto, presentabile in ogni occasione. Erano belle e accaldate, scarmigliate giusto un po’ mai veramente arruffate, o spettinate. Zia Liviana poi aveva una maniera di guardarsi costantemente in giro, come se ci fossero dei corteggiatori ad adocchiarla. L’avvenenza da giovane l’aveva abituata agli apprezzamenti e a darsi delle arie da civetta consueta a specchiarsi e ad aggiornare il look, con sistematiche aggiustatine del capello e del portamento. Nella messa a punto non tralasciava mossette studiate e faceva sì che gli uomini l’ammirassero in ogni aspetto, dalle gambe agli ammiccamenti se non sfacciati, gestiti con dinsinvoltura e una vuota malizia arricchita dal sorriso fesso. Allora sembrava che anche durante le faccende domestiche, torcendo il collo ad arte con gesto sinuoso per catturare il fantomatico ganzo intorno, zia Liviana fosse ancora la fanaticona di un tempo. A dire la verità, la povera donna non era mai rilassata e quelli che dovevano essere stati i segnali lanciati durante la cattura degli spasimanti ( a volte del tutto immaginari nell’esercizio della conquista) si erano trasformati in orrendi tic nervosi. Zia Liviana insomma si  era procurata un eterno smorfiare che le copriva il viso di pieghe, inoltre, alcune rughe sottili davano il colpo di grazia alla bocca, una specie di muso volpino arricciato, derivato di certo dal vezzo di ruminare stringendo le labbra con noia schifiltosa, nonostante rivolgesse un tacito e accorato invito di farsi avanti all’eventuale bamboccione. Sua figlia, un maschiaccio privo di scrupoli capace di servilismi e smancerie per interesse, aveva appreso da lei l’arte del raggiro e non guardava in faccia ad alcuno qualora si fosse trattato di ottenere un’altra bambola furga, o un ciondolino per il suo bracciale d’oro a cui aggiungeva ninnoli e cuoricini ogni anno. Sapeva battere i piedi per un premio in denaro, o decideva di elemosinare con moine esagerate e fumose un paio di sandalini alla moda perché se no, minacciava, sarebbe andata scalza. Era brava nel saper chiedere imponendo per esempio, che aveva urgente bisogno di trascorrere altri giorni al mare e così prolungando il soggiorno per farsi notare da tizio e da caio senza peraltro averne simpatia, si agganciava a loro col miraggio di un futuro prospero, perché erano i figli o i nipoti dell’ingegnere, del medico e del riccone. Il modello materno aveva funzionato da lezione e benchè ancor bambina, mia cugina aveva fatto sua e già operativa la raccomandazione di non sposare un poveraccio; magari avrebbe potuto prendersi a mano un cavernicolo di lusso, purchè pieno di soldi in quanto sarebbe stato  più vantaggioso  farsi mantenere anzichè sgobbare in un ufficio, o in un negozio. Fu così che cominciai ad odiare ogni forma di monetizzazione e soprattuto, detestavo i parenti che regalavano monete per svuotare il borsellino pregando i ragazzini con quell’esclamare da idioti, fatene buon uso! E si sa, un bambino pensa immediatamente a un salvadanaio magico che non si svuoterà, un salvadanaio con inesauribili cunicoli e pance segrete in grado di generare prestiti in automatico e all’infinito, per svaghi, giocattoli e per acquistare le cose inutili gradite agli adulti. Io e Tarall ci rendevamo conto della situazione in maniera complice, però schietta e lavoravamo in silenzio. Manolo, il figlio di zia Flo suonava l’armonica; era un po’ fissato con la ricerca degli accordi e le note fuoriuscivano distorte con un effetto deprimente, per la forza con cui il cuginone provava e riprovava la melodia. Era il più grande tra noi; si distanziava di un tot d’anni e frequentava la scuola media mentre io ero all’asilo e gli altri alle elementari. Era buono e generoso, un tantino saputo e a chiunque ripeteva che sarebbe andato presto alle superiori, in un prestigioso liceo scientifico. Che palle pure lui! Che se ne stesse nel suo angolino bucolico a scavar musica inconcludente con quelle immense sfiatate nell’armonica! Per tutti era il cuginone e non è che ci sia molto altro da aggiungere. Sua madre, zia Flo, lo portava in pianta di mano per quel suo palese non mischiarsi coi piccoli e lo chiamava milord, che tra l’altro era il titolo di una canzonetta della Piaf per la quale le Morelli impazzivano e non parliamo di Dalidà: si acconciavano come lei, ma tentavano pure le diverse mise della Bardot, osavano finanche le pose più scandalose di Magallie Lee, la spogliarellista in auge presso il Crazy Horse dove a Parigi si erano recate per vederla nello spettacolo che le aveva elettrizzate. Zia Flo era alta e slanciata, elegante, con lineamenti fini e nobili. Il viso leggermente lentigginoso e triangolare dalle parti del mento assumeva a volte, una durezza orgogliosa o altresì, un’estrema mobilità. L’espressione arricchita di lievi fremiti delle narici lasciava presagire indisponenza nelle questioni di carattere materiale. Il modo di far saettare lo sguardo ironico e battagliero denotava una forma di ostinazione. Infatti, la sua caparbietà emergeva nelle  questioni ereditarie e finanziarie, con puntiglio, benchè infine rinunciasse a tutto in quanto benestante. Nelle diatribe coi parenti non rinunciava a far prevalere il suo punto di vista in via di assunzione di princìpi e faceva sì che la discussione vertesse su regole e correttezza; bisogna essere onesti, tuonava con quella sua voce metallica e intransigente e piantava momentanee grane solo per dimostrare di aver ragione, dunque, si ritirava abbandonando il dibattito per rifugiarsi in bagno a limarsi le unghie e a laccarsi i riccetti.  Zia Flo mi piaceva a tratti; non era deliziosa come voleva apparire e ne ricevevo sensazioni di freddezza. Mi abbracciava per coccole disperate; era spenta a causa di troppi rimpianti e mi divincolavo per non essere divorata da quel suo agire fluttuante causato da antiche frustrazioni; di sicuro la evitavo perché non tolleravo di essere vampirizzata, di diventare l’oggetto e la pupetta su cui versare e far tracimare tonnellate di un inestinguibile bisogno di affetto. Era afflitta zia Flo e il suo male aveva radici  in patimenti giovanili durante la lotta coi fratelli e le sorelle, in particolare con zia Liviana che la privava delle attenzioni altrrui, con quel suo fare da puttanella in grado di distrarre anche il più convinto corteggiatore della sorellina. Tarall notava le sfumature nei comportamenti di Flo e la consolava con un lamento empatico e canino, ma stupidamente per lei e per tutti di famiglia, il mio cane era solo una stupida bestiaccia che sbavava e l’osservazione frequente era che di cani bellini e deliziosi ce n’erano, ma io avevo  scelto secondo il loro parere di gente mediocre, il più brutto, il mastino napoletano, perché ero dispettosa. In realtà avevo voluto Tarall per difendermi io dai loro attacchi, dai dispetti e dalle punizioni. Tarall era per me fonte di garanzia di bene e protezione, ma loro, i grandi, purtroppo non volevano comprendere e poi sapevo che tra gli incompresi nei pettegolezzi sussurrati a mezze parole, ci ficcavano la povera zia Flo, battagliera, economicamente a posto, ma fallita sul piano dei sentimenti. Suo marito la tradiva con una campagnola procace e rozza. Sta di fatto che Flo era comunque la più garbata nei miei confronti, mentre mia madre è vero che prendeva a ceffoni Lionello mio fratello, ma con lui si ricomponeva in fretta e di mezzo c’era tra loro la confidenza e ridevano insieme. A me non era riservato un trattamento del genere e avvertivo sempre aria di diniego e di burrasca quando Letizia Morelli si avvicinava brusca e imperiosa. Inoltre m’inceneriva di terrore con sguardi taglienti e accusatori. Sapeva perfettamente che era ingiusta, ma cercava uno sfogo alla sua traboccante rabbia e da un niente, tirava fuori accuse perentorie e se negavo, mi dava della bugiarda. Non sono portata per la menzogna e pur colpita a morte, ferita e dolente, andavo ad addormentarmi abbracciata a Tarall per togliere il disturbo. Tarall era l’unico che avrebbe dato la vita per me e in questo non c’è niente di retorico. Un buon amico per me era il fratello di mia cugina, Osvaldo Lindo detto Ovli. Era un tipo avventuroso di poche parole e prediligeva il ruolo d’esploratore nei giochi. Se lui faceva Robinson Crusoè, io mi mostravo molto abile nell’interpretare Venerdì non come servo, bensì come l’utile indigeno del posto che, col suo cane temerario Tarall il valoroso, lo salvava e lo aiutava nelle situazioni difficili. Accanto a loro due mi sentivo più forte; percepivo meno il pericolo di venire sopraffatta dalla totale mancanza di approvazione. Meritavo un pizzico di riguardo, purtroppo non ero disegnata a pennello secondo gli schemi e i piani di mia madre. La femmina doveva essere e funzionare da donna già a cinque anni e addobbarsi da imbecille in panni scomodi, nonché sopportare ogni bassezza e disistima, con apparente dignità. La mamma urlava, l’educazione qua, la gentilezza là e mi spaventava creando in me un vuoto incolmabile. A causa di ciò anche le più tenui domande si bruciavano e si autoeliminavano per non farle del male, perché l’amavo e non volevo che soffrisse per colpa mia. Anche Ovli subiva come me la disparità di trattamento e per interi pomeriggi restava zitto e come me lavorava con le conserve e le marmellate e i sottoli e la roba da essiccare al sole: ancora pomodori e poi peperoni, prugne, fichi, albicocche e nei fichi ci ficcavamo le mandorle quindi, li mettevamo a tostare nella fornacetta all’aperto. Quando gli altri tiravano per le lunghe la pennichella pomeridiana, io, il grande Tarall e Ovli ci davamo alla macchia e stringevamo in pugno un vimini che facevamo vibrare per sentirlo fischiare e mettere paura ad eventuali malviventi e animali sconosciuti. Eravamo coraggiosi perché sapevamo scacciare l’oscurità dei grandi e dell’ambiente. Chiunque sarebbe potuto sbucare da un cespuglio, ma noi non eravamo melensi e grotteschi mocciosi indaffarati a valorizzarsi agli occhi di zii e genitori. Noi eravamo da soli ed io addirittura ero la più piccola, ma non per questo pavida o meno temeraria. Mentre Lionello e cugina sperimentavano vari modelli televisisi allora in voga con imitazioni di attori e attrici, noi sperimentavamo corse a perdifiato e scalate. Ci arrampicavamo sui cerri e sui castagni. Aiutavamo le talpe a scavare, accarezzavamo i ricci appena svezzati e sopra ad ogni cosa, provavamo ad essere liberi e a piacere solo a noi visto che gli altri ci ignoravano fino all’ora di cena, all’ora dell’allineamento a tavola dopo essersi lavati e abbottonati, come si suol dire. A volte ridevo anch’io delle performance di mio fratello che scimmiottava i vicini di casa, i passanti e ne improvvisava il verso più per rendersi amabile che per proprio sollazzo. In fondo lo capivo: era in atto una lotta per la sopravvivenza e per farsi accettare. Lionello si metteva in mostra, faceva il pagliaccio e se buscava le botte,  piangeva di cuore spalancando la bocca come un altoforno, finendo con l’assomigliare a quello del gruppo cabarettistico dei Brutos, che le prendeva dai compagni. Mamma e sorelle ghignavano di gusto, si sbellicavano fino a darsi manate e pacche e farsi venire le lacrime agli occhi, poi tornavano in qualche modo alla mansione avvilente delle intime confidenze sui loro uomini che peraltro non si sognavano di criticare; il loro era un mestiere arduo: far intendere, non spiegare, mantenere la dignità del non detto e del segreto, di una riservatezza in cui affondavano tutte e tre come in una palude di melma. Fu in quel periodo di villeggiatura senza termine degli invasori a casa nostra, che iniziai a scorgere delle papule e delle macchie rosate sulla pelle, colorata all’improvviso d’arancione, di mio cugino. L’incarnato era però meno impressionante delle orecchie che apparivano lanceolate e sottili, lucide e quasi trasparenti, di un colore terreo tra l’ocra e il marroncino marcio. Avevo notato dei cambiamenti nei giorni precedenti, ma mi erano sembrati l’effetto di un’abbronzatura non uniforme con le solite piccole bolle e ustioni, che ci procuravamo stando esposti al sole anche nelle ore della canicola. Ero capitata accanto a Ovli durante una pausa per bere latte di mandorla appena versato dal frigo. M’erano venuti i tipici moustaches bianchi e appiccicosi di zucchero dopo aver tracannato più che il liquido, il freddo di cui avevo bisogno per placare l’arsura. L’aspetto di mio cugino era preoccupante, tuttavia egli masticava con gran cura della liquirizia e sputava nel vento, o meglio in quella specie di galleria vischiosa che era l’aria di metà luglio in una zona non precisata sullo Ionio. Le presenze moleste e lagnose di Lionello e della smorfiosa si avvertivano come eco in un’ora torrida che di più oserei definire equatoriale. Tutto era resinoso, lattiginoso di lattice azzeccoso in cui anche i moscerini schiattavano e l’epidermide, il collo, le braccia, l’incavo nel retro delle ginocchia prudevano e sudavano da far schifo. Non c’era neppure una tonza in cui sguazzare perché bisognava aspettare il bagno all’ora stabilita e Tarall in quel contesto si accucciava ai miei piedi e smetteva di mugolare e di pretendere l’ombra, tanto non ce n’era. Spesso le nostre gambette secche, mie e di Ovli, penzolavano da un muretto, ma quel giorno eravamo sdraiati con gli occhi chiusi. Le teste sfioravano la bassa parete che ci separava dal dirupo e ascoltavamo Tarall che ronfava e sfiatava come un sifone. Presi d’impeto la decisione d’infrangere il silenzio e di chiarire lo stato delle cose, quindi chiesi a bruciapelo, anzi quasi l’affermai, Ovli lo sai che stai per morire? Eravamo entrambi intorpiditi dalla calura, ma vidi Ovli che si scosse per posizionarsi più vicino al fontanino che gocciava. Stavo perdendo la speranza di ottenere una risposta quando dopo un quarto d’ora sentii la sua flebile voce che diceva, forse sto morendo, ma chi se ne importa. E aggiunse, mio padre è una carogna; vuole bene a mia sorella e mi prende in giro per farla ridere alle mie spalle. Ristette col pianto in gola poi proseguì. Non ho più fame, asserì torcendosi le mani e aggiunse, da molti giorni nascondo il cibo in tasca e poi lo butto via o lo seppellisco nel formicaio. Cavoli, esclamai, sei stato tu a nascondere la mortadella dietro il divano; ho sentito la mamma imprecare contro lo sporcaccione di turno e mi ha guardato torva. Te le ha date, fece lui preoccupato. No, risposi, c’era Tarall con me che le ha ringhiato contro e lei non rischia quando la belva si propone. Sorridemmo alla cosa e io sfiorai una papula domandando se doleva. Ovli fece di no col capo, poi si alzò e disse, hai visto, sono cresciuto lo stesso, adesso sono alto quasi come il cuginone. Fummo raggiunti da Lionello e dalla smorfiosa. Che fate, disse lei. Lo sapete che l’insolazione può essere pericolosa? Noi andiamo al bar, ci siamo già lavati e tirò per un lembo dei pantaloncini mio fratello che girava con una gigantesca buatta vuota di pummarole da percuotere, perché, diceva, gli piaceva suonare la batteria. Erano festanti e si dileguarono in fretta per non dividere il gelato con noi. Avevamo lavorato e leccato tanta di quella salsa di pomodoro da essere sazi. Io poi non mi ero mai nutrita molto. Non avevo mai veramente fame anche se mi capitava di essere vorace con le polpette e il pesce fritto. Fu così che curiosamente dissi a mio cugino che sarei stata la sua complice quella sera a cena e che avremmo potuto mettere il cibo nel terriccio delle piante, o sotto gli embrici della rimessa accedendo dal balcone. Ma la notte era più umida e calda del giorno e  del previsto e i tre mariti delle sorelle Morelli bevevano birra ghiacciata e fumavano. Non sarebbero andati a letto presto. Lionello e mia cugina invece erano schiantati dal sonno e si erano butttati a pesce sul sofà a dormire come canarini sgonfi, come pellecchie di capretto. Le donne rimestavano in cucina e mettevano a sterilizzare bottiglie e vasi di conserva in enormi callare sul fuoco del gas. Anche loro accendevano una paglia in tre, bastava una galuà e se la dividevano spippettando senza ingoiare il fumo nei polmoni e tossendo come asmatiche ed inesperte. Io sapevo fumare e anche Ovli, ma era uno dei tanti segreti di famiglia. Il patto era, guai a chi riferisce che sappiamo fumare e sappiamo dove trovare le sigarette. Avevamo un pasticcio nelle mani infilate nei calzoni e non se ne poteva più di trattenere quella roba viscida che avrebbe macchiato i panni e sai che scapaccioni  e grida dalle nostre mamme, se almeno avessimo potuto fare un tiro per risollevarci, ma niente, dovevamo aspettare e quando mio padre dette il saluto della buonanotte, ad uno ad uno i vecchi andarono a dormire e anche le femmine e tirammo un sospiro di sollievo. A noi non badavano, erano troppo stanchi e finalmente quando mettemmo fuori quello ch’era rimasto di melanzane e mozzarella, di ananas e banana, di pane e pezzi di sedano e carote, ci potemmo dedicare al progetto di concimare le piante e così facemmo eseguendo in fretta ogni movimento e senza rumore. Poi lavammo i vestiti col detersivo per i piatti e li torcemmo fino al tormento stringendo i denti e li reindossammo senza badare al bagnato che avevamo fatto e alla quantità di umido che ci mettevamo addosso. Era stata un’operazione stramba, una roba da urlo e alla luce del lampione in terrazza, notai che le macchie di Ovli si espandevano a vista d’occhio e l’arancione si faceva cangiante e traslucido e lui era debole, troppo debole. Ti dispiace di morire, chiesi. E lui asciutto asciutto disse di no e alzò le spalle con noncuranza fino a toccarsi le orecchie. Se muori, dissi, ti seppellisco io e allora lui mi fece giurare che non avrei mai rivelato il posto della tomba a suo padre. Poi ci ripensò, come farai a seppellirmi da sola, fece. E io di rimando dissi che una volta morto non avrebbe avuto più preoccupazioni e avrei svolto tutto al meglio con l’aiuto di Tarall, che guaì sentendosi nominare. Scaveremo la buca, raccontai, e ti adageremo su un cartone e ti trascineremo nel fosso e ti copriremo di terra. Ovli si dichiarò d’accordo e ormai stanchi e sfiniti ci addormentammo sulla pancia pulsante del povero Tarall, il mastino umano che ci accoglieva se eravamo disperati e soli. Fui svegliata all’alba dal trambusto e mi sentii scivolare e sbattere i talloni che avanzavano fuori dai sandalini con una certa furia. Sentivo parole quali: di corsa, è urgente, chiama il pronto soccorso, corriamo e capii che era giunta l’ora. Dal torace mi uscì uno sbuffo eroico d’aria e Tarall mi trotterellò accanto per entrare in bagno che però era occupato. Ne uscì Ovli che avevo sentito vomitare dalla porta socchiusa, accompagnato dalla madre piangente. Era pallido e stremato. Lo abbracciai e quell’ipocrita di mia zia mi respinse facendomi notare che Ovli, il suo amore, era debole, ma non mi lasciai scoraggiare e gli chiesi nel fondo dell’orecchio se sentiva qualcosa. Forse morirò domani, mormorò. Allora è fatta, replicai. Gli adulti avevano addosso un’agitazione che sembravano anguille devastate dalla fretta e per non subire i loro modi sbrigativi, andai a lavarmi, vestirmi e pettinarmi nella lavanderia dove usai il sapone da bucato per farmi linda. Indossai la canotta pulita, i pantaloncini blu e gli occhi di bue coi calzini a righine bianche e blu. Mi piaceva lo stile da marinaretto e mi feci due belle trecce alla velocità della luce per non intralciare i grandi. Mi servii la colazione e mangiai in cucina con Tarall che divorò con me alcuni pezzi di torta di mele. Lavai i denti raschiandoli per tirarli a lucido, spazzolai il mio amico a quattro zampe che ruttò e slappò acqua dalla ciotola fino a rimpinzarsi perché si preannunciava una giornata lunga tra corsie, corridoi e ambulatori ed era bene abbeverarsi e tenere lo stomaco pieno per non soccombere alle attese. Lo avevo imitato e guidato e viceversa,  Tarall si era lasciato ammansire anziché mettersi a fare i giochi senza frontiera prima di farsi rassettare. Eravamo in perfetto ordine e aspettavamo di partire. Gli uomini erano giù in cortile. Fumavano con un certo accanimento. Mio padre ascoltava. Non commentava. Il marito di zia Liviana, il padre di Ovli, cicalava come uno sguattero e di tanto in tanto passava uno straccetto sulla carrozzeria gialla della 124 Fiat. Il marito di zia Flo, zio Mansueto, puntualizzava, precisava, gesticolava contrariato,  ma smise di botto per evitare una qualche polemica iniziata a proposito di Ovli. La prima a scendere fu zia Flo con cuginone combinato da damerino. Fu la volta della mamma, bellissima, colorita, una melagrana vestita di bluette, sbracciata in longuette e chanellino basso e stringato, sportiva, vagamente esotica e altera. Teneva stretti per i polsi mio fratello che già piangeva per la dose quotidiana di sberle e mia cugina e li scaraventò senza complimenti nella Opel di zio Mansueto anziché nella nostra automobile, dove aveva preso posto zia Flo accanto a mio padre e col diletto figlio seduto sul retro, a sputazzare in quella stupida armonica delle ariette western e data la circostanza, persino un idiota avrebbe capito che  non era davvero il caso. Mia madre mi venne incontro mentre cercavo di capire dove collocarmi e lei, tirandomi per una treccia, tu rimani qui perché sei piccola e devi badare all’orso, disse autorevolmente. Aggiunse che sarebbe passata la nonna  a darmi da mangiare. Il mio meditabondo papà spense la paglia e venne a darmi un bacetto. Io e Tarall ristemmo sulla banchisa di ghiaccio che si era creata sotto i nostri piedi o zampe, fa lo stesso, e ci ammutolimmo per lunghi anni da quel momento in avanti. Ovli, bianco come un cencio, fu adagiato alla buona e meglio sul sedile posteriore della 124 Fiat con la madre in pena. Ovli fetava di straccio bagnato. Aveva fatto tanta pupù ma le chiazze, i ponfi e le papule erano aumentati a dismisura come una tribù di sinistri parassiti. Eravamo bloccati io e Ovli, simili a pacchettini legati di cui uno trasportato d’urgenza e il secondo abbandonato in stazione. Come fu possibile che a nessuno venisse in mente che in quel momento così delicato, sarebbe stato il caso che due bambini si salutassero come doveva essere conveniente. Ma che si può fare con dei grandi ingrati verso i propri cuccioli che donano felicità, senza nulla pretendere in cambio di qualche coccola e un po’ di conforto. Superai la delusione quasi per incanto e corsi verso il mio amico; mio zio si affacciò col suo volto da sganappo sormontato da un ridicolo cappellino bianco e scoppiò a ridere. Portava un paio di guanti gialli a dita mozze. Che c’è, chiese ridendo e zia Liviana vedendo che Ovli tentava di alzarsi, mi fece segno di sparire se no il piccolo si sarebbe affaticato. Lui però fece ciao con la mano e mi sentii subito più tranquilla e anche il mio papà si rasserenò. Strizzò l’occhio come a volermi ripetere che eravamo fatti della stessa pasta e poi seguì la carovana che partì alle nove del mattino e a tarda sera fece ritorno con pacchi e confezioni di dolci e vestiti e scarpe. Io avevo tenuto duro trattenendo le lacrime e con  Tarall me n’ero andata a zonzo nella parte vecchia del paese dove l’Isca, un fiumiciattolo, scorreva bianco sulle pietre calcaree e verde sul fondo. Mi ero immersa fino alle cosce e anche Tarall ormai puzzava di ranocchia. A mezzogiorno avevo rimesso il collare a Tarall ed ero andata a casa dove la nonna stava preparando la pastasciutta.  Ovli voleva morire per far torcere le budella a sua madre, a quel grosso idiota del padre e a quella stupida della sorella. Pensavo che in ospedale l’avrebbero ucciso per svolgere strani esperimenti e allora pregai affinchè morisse prima di un’eventuale operazione. Con un’occhiata eloquente la nonna mi fece intendere che avrei dovuto lavarmi e cambiarmi e per non sporcare il pavimento tirato a lucido, andai a fare le abluzioni nella taverna, poi andai in camera e indossai altri pantaloncini e una t-shirt a righe bianche e rosse. Non volevo urtare la nonna perciò misi Tarall alla catena, gli diedi da mangiare, mi sciacquai le mani e mi sedetti educatamente a tavola. Lei si avvicinò con un piatto fumante di maccheroni che posò lesta per  stringermi tra le sue braccione morbide e profumate di pulito. Mi trattenne in quel candido calore amoroso e dai miei occhi sgorgarono non lacrime ma brucianti gocciole di petrolio denso e amaro. Stavo piangendo e lei mi asciugava le gote con un lembo del sinale e mi cullava. Mi nutrii solo un po’ e la nonna passò direttamente alla macedonia. Ne presi un assaggio poi andai a ritirare Tarall e con lui mi misi a dormire sotto la tettoia inondata dall’ombra della pergola di glicini, dove le sorelle Morelli erano solite sedersi quotidianamente per far le chiacchiere riparate dal sole cocente. Oggi toccava a me il diritto di riposare al fresco e col cuore gonfio. A sera inoltrata un paio d’ore dopo il tramonto,  sentii la confusione del ritorno dei parenti e mia nonna mi disse che andava via. Mi baciò ripetutamente e se ne andò dicendo qualcosa ai baccanti del tipo, su su datevi una mossa chè la bambina deve andare a letto. Com’è ovvio, nessuno le dette retta e corsi verso la 124 Fiat per sbirciare dal finestrino attraverso il quale scorsi mio cugino praticamente guarito e sorridente. Si vedeva ch’era debole e mentre la madre già scartava i pacchi con le sorelle e la figlia, io tentavo di comunicare col morituro. Egli scese dalla macchina e mi disse che non era morto perché gli avevano dato la vitamina C sparata nelle vene e poi un biberone di ferro, acido folico e vitamine del gruppo B.  Non pensi più di morire, gli chiesi. Lui disse che era dispiaciuto di non finire nella fossa che gli avrei preparato, ma se gli fosse tornata la malattia delle chiazze sarebbe scappato per morire in pace, lontano dai due caciaroni e da cuginone, lontano soprattutto da suo padre e sua madre, che gli avevano imputato la responsabilità del suo stato di salute precaria, fino al punto di trovarsi ad avere un altro colore e a diventare  macilento come un ronzino. Ovli mi disse che si erano recati ai grandi magazzini. La piccola serpe ammaestrata era riuscita a spillare soldi agli zii e aveva acquistato un paio d’infradito. Le donne avevano provato abitucci e camicette e avevano comprato l’infinito. Poi gli uomini avevano proposto di rilassarsi al ristorante, raccontava Ovli, dopo la tensione dell’attesa degli  esiti clinici. Sua madre aveva bevuto un caffè dietro l’altro e mio fratello non aveva smesso se non per brevi intervalli di piagnucolare, perché voleva e solo voleva, non s’era capito cosa. Ovli cambiò discorso e più risoluto del solito dichiarò che se gli fosse capitato un’altra volta di morire, non si sarebbe fatto salvare. Sei sicuro, feci. E a quel punto s’era già intromessa mia madre, non lo vedi che è debole, pronunciò acida e mi strattonò per condurmi in bagno prima della cena a base di pizza, ricci di mare e totani fritti. Tarall le abbaiò contro. Se la bestia protestava mia madre si spaventava, ma non perdeva l’occasione di rivolgere improperi alla volta di chi in fondo era solo un altro componente della famiglia. Con l’indice puntato su di me, Letizia Morelli mi fece indossare il pigiamino e il tono che mi usava era ruvido come se mi ritenesse colpevole di una malefatta. In realtà non vedeva l’ora di liberarsi di tuttti, ma mia madre ormai non trovava rifugio neppure nel sonno. Mi costrinse visto che non avevo fame ad andare a letto e i due cretini intanto, ballavano e strillavano parecchio. Ovli coperto da uno strato di asciugamani fioriti era sdraiato sul sofà a guardare Maigret o Belfagor. Feci in tempo a salutarlo prima che abbassasse le palpebre e così fui confinata definitavamente lontano dal mondo con l’obbligo di addormentarmi in fretta. Obbedii ma nel cuore della notte mi svegliai con la voglia di prendere il fresco. Il buio intorno, oleoso e stellato, non m’inquietava e avevo una gran sete. In punta di piedi con Tarall che mi seguiva e al quale raccomandavo di non fare casino, m’indirizzai in cucina da cui proveniva la luce fioca del frigo aperto. Ovli si era servito di una porzione di gelato e s’era seduto a terra a godersela leccando alla fine il cucchiaio e la scodella. Devi chiudere lo sportello, gli dissi, se no qualcuno noterà l’illuminazione e si arrabbierà con me. Incurante, lui continuò a ricrearsi e io bevvi l’acqua gelida e frizzante di una nota sorgente vulcanica. Confabulammo un po’, poi ci dividemmo per tornare a dormire. L’odore dei pomodori bolliti stagnava nell’aria. Nessuno si era preoccupato di cavarli dalle callare e riporli sulle scansie in cantina. All’indomani se ne sarebbero occupate le sorelle Morelli. Detti un calcio alla porta della cameretta e m’infilai sotto il lenzuolo benchè non ve ne fosse bisogno. Alle otto del mattino era tutto un cicaleccio e io avevo fame, sonno e stizza, tanta stizza verso le Morelli che già si vantavano del loro portamento e se avevano detto addio alla magrezza giovanile almeno, dichiaravano, si doveva saper vestire per non far venire allo scoperto i lardarelli e le trippette, mascherandoli con modelli adeguati, a tulipano, strizzatissimi in vita e di lunghezza sotto il ginocchio, con lo spacchetto, per dirigere lo sguardo ben lontano da stomaci globosi e pance non più piatte. Si davano delle arie quelle ex ragazze di provincia, che non erano diventate per fortuna mai veramente grasse, quindi si permettevano di deridere le paesane: mai che ve ne fosse una alla loro altezza. Feci rumore nel servirmi la colazione. Non ne potevo più di far la parte di Calimero tutto piccolo e nero. E poi ero bionda di un biondo che faceva invidia ai vikinghi e a mia cugina, biondina ma senza riflessi rossicci e dorati.  Ehi, tu, mi apostrofò la mamma, fai con garbo. Mio padre intanto stava chiedendo di me e lei disse, eccola qui la tua ribellina che deve imparare a non alzare la voce. A dire la verità non avevo aperto bocca. Non so perché mia madre provasse un certo gusto sadico a riferire cose che non stavano né in cielo, né in terra. Si riempiva la bocca di frottole  per evitare di stare con me e di essere dolce. Letizia Morelli aveva paura della dolcezza, temeva di esserne ingoiata, di non poter più farsi sentire. Poverina, non capiva una mazza e viveva di desideri repressi. Desiderava e non otteneva. Che peccato! Mi era venuto a noia persino Ovli, ma Tarall no; lui era tutto mio e gli appartenevo e insieme eravamo abituati ad essere ignorati o insultati. La mamma si lagnava ch’ero selvaggia e lei lavorava tanto per me. Non ero ingrata, solo non capivo le sue ramanzine e le scemenze che raccontava a mio padre. Per concludere, non sopportando il supplizio delle accuse, ammettevo colpe che non avevo benchè ad ogni modo, la cosa non soddisfacesse né lei, né me. Quando si dice l’incomprensione… Andai sulla verandina esterna a disturbare mio cugino. Come ti senti? E lui, bene, sto bene. Sei contento, dissi. Si, fece lui con quell’aria infelice ma non più malaticcia. Poi abbassò lo sguardo fin sotto le suole e disse che non sapeva cosa fare ora che era finito il lavoro dei pomodori. Ma no, lo rassicurai. Oggi facciamo i pelati e i succhi di frutta. Tra un po’ ci chiamano a girare la manovella, fidati, gli dissi. Ovli sorrise. Aveva un ciuffo di capelli sempre bagnato di sudore sulla fronte e la pelle era tornata bianca bianca e le gambe erano un po’ più scure, sporche o abbronzate. Forse gli rimproveravo di non essere più in fin di vita e forse se lo rimproverava da solo, sta di fatto che tornammo a parlare dell’argomento. Non muori più ormai, emisi tutto d’un fiato. Lui rispose imbarazzato ch’era davvero mortificato e ridemmo un po’ perché eravamo stati spiritosi e poi leggevamo i fumetti di Bleck e io ero Roddy, lui l’eroe e Tarall, com’è naturale, incarnava il Dottor Occultis. Mia madre, disse Ovli, ce l’aveva a morte con me quando stavo male perché le procuravo dolore e dispiacere. Figurati, feci io. Fanno tutti finta qui e non aggiunsi altro che già eravamo sotto il convento dove ululava il vento. Era un angolo incredibile del paese. Lì faceva sempre buio prima e il vento spazzava via anche il respiro, anche d’estate e con lo scirocco. Lì spirava sempre la tramontana e non era bello restare a lungo perché potevano esserci i Giralli, dei nomadi giganteschi che rapivano i bambini, soprattutto se i piccoli parlavano in italiano e non si esprimevano in dialetto nemmeno per le parolacce. Fu all’improvviso però che Ovli cominciò ad evocare quella volta ch’eravamo stati in Svizzera. Ti ricordi, fece, quando la smorfiosa ebbe l’appendicite e anziché portarla come hanno fatto con me all’ospedale vicino, l’hanno portata lì da uno famoso e ti ricordi, siamo stati costretti ad andarci anche noi. Ma no, dai, gli dissi, eravamo in vacanza a Como e veniva più facile trasportarla in Svizzera che altrove. A volte Ovli era proprio un citrone. Ristemmo per lunghi istanti a bloccare il vento con le mani, poi cambiammo direzione per tornare a casa con l’intento di dare una mano alle mamme. Strada facendo, dissi che non ricordavo molto la città di Zurigo, ma ricordavo com’erano vestite bene le tre sorelle, abbigliate Dior dal collo al ginocchio. Ai piedi invece, che fossero stringate, o col calcagno libero, calzavano delle Chanel. Le Morelli indossavano gonne strette di shantung e ognuna aveva scelto una nuance. La mamma prediligeva il color antracite e sopra indossava un top plissettato di un grigio-glicine chiaro.  Zia Flo aveva scelto il verde per la gonna e il giallino per la camicetta semitrasparente, con le manichine spioventi all’americana e aveva ripreso il verde della gonna con una fusciacca annodata tra i capelli rossi. La più audace naturalmente, era zia Liviana col pull dolcevita smanicato bianco dash, tenuto incollato alla gonna color terra di Siena bruciata da una alta e aderente cintura gialla di pelle, con una fibbia grande quanto Porta Capuana. Era la più appariscente e si credeva una diva zia Liviana, ma le grosse menne la rendevano meno elegante, una vera attrazione finanche per gli svizzeri, che da buoni montanari non badavano alla moda di passaggio delle sorelle Morelli e famiglia. Le donne alla stazione però lanciavano lunghe occhiate curiose e sembravano ansiose di copiare lo stile delle italiane. Ovli era sulfureo. Calciava ogni pietra, ogni piccolo sasso e si rivolse a me con fare smanioso. Non ti ricordi allora, disse tutto arruffato come un pollastro, che mia sorella non fu operata? Non ti ricordi, aggiunse d’impeto,  che quella scimmia aveva fatto la scena per farsi portare a vedere la Svizzera e che i medici visitandola ghignavano e dicevano “che attrice” e io dicevo, che bastarda! Non ti ricordi più, chiese rassegnato per l’ultima volta. Io sono ancora piccola, mormorai e afferrai un vimini e lo feci vibrare. Tarall pisciò ripetutamente sugli pneumatici della 500 di Giacomino il tabaccaio e per poco rischiammo il linciaggio, frenato dai clienti che reclamavano il tabacco. Camilla la benzinaia stava uscendo tutta in ghingheri e con la sigaretta in bocca. Ci salutò e ci scompigliò i capelli. Ormai eravamo alla svolta dietro casa. Lo sfogo di Ovli non era terminato. Devo morire, fece cupo e io sorrisi. Davvero, chiesi. E mi sentii orgogliosa di lui. Quando vorresti morire? E lui, subito, rispose. Adesso in quest’istante, disse con una certa fierezza. Sì, replicai, ma non hai neppure le chiazze e i ponfi. Cambiammo tragitto per mettere a punto un piano ma in realtà non ne avevamo e prendemmo la via del Langone, il laghetto con le cascacatelle.  I pelati, la mamma, le zie e quei due cretini potevano attendere. Ci tuffammo nell’acqua con Tarall che aveva i bicipiti come un vero bagnino e dopo esserci asciugati, parlammo un po’.  Vuoi scappare di casa, feci. No, voglio morire, rispose ostinato Ovli. C’erano ancora le rondini e uno stormo di gallinelle d’acqua dal becco rosso. Queste non volavano, splasciavano sull’acqua e le rondini giocavano in alto. Ad un tratto sentimmo delle voci. Erano altri ragazzini che venivano a tuffarsi. Decidemmo di spostarci in un angolo appartato dove asciugarci meglio e abbrustolirci. Era un bel posto per riflettere in santa pace. Ci sedemmo un po’ ingobbiti e tenendo le ginocchia tra le braccia succhiavamo il calore direttamente dai raggi del sole perché c’era venuto il brivido. Si stava bene. Eravamo liberi e soli. Ti è proprio dispiaciuto di non essere morto, dissi comprensiva. Lui rispose commosso, tantissimo porca miseria!   E restammo a fissare l’erba… 



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