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Stefano Torossi

Ti spiezzo in due

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Ti spiezzo in due!
Sprofondando incoscienti nel politicamente scorretto andiamo a raccontare un’inaugurazione esilarante: “Roma, patria dell’anima di Nicolaj Gogol – acquerelli di Alla Zarvanytska e Valentina   Vinogradova”, ore 11 del 2 luglio a Villa Torlonia, Casina delle Civette.
La villa, a parte il suo passato mussoliniano, è la vetrina delle smodate manie di grandezza di Giovanni e Alessandro Torlonia, padre e figlio, affaristi di inizio ottocento che riuscirono a diventare ricchissimi e anche nobili nel giro di due generazioni. Si comprarono palazzi, feudi e una faraonica villa in cui tutto era progettato per la pompa di famiglia. Perfino gli sgabelli erano di marmo, mica di legno, e avevano incisa la T del cognome di famiglia.
Caldo bestiale alla Casina. Le sedie per il pubblico sono in pieno sole. Apre l’incontro l’ambasciatore ucraino che racconta il soggiorno romano dell’illustre concittadino Gogol all’epoca dei Torlonia trionfanti, parlando con un accento da barzelletta, tipo: “ti spiezzo in due!”.
Seguono interventi critici sugli acquerelli delle due pittrici. Poi un’attrice (sempre sotto il sole implacabile) recita estratti dello scrittore. Finché arriva il piatto forte.
Presentato come l’usignolo di Crimea, un robusto giovanotto infagottato in uno di quei camicioni coi ricami che tutti noi, e anche loro evidentemente, associamo all’immagina della Russia tradizionale, attacca, su una base registrata, una terrificante ballata in tre quarti: “Nich yaka misyacna”, che vuol dire “La notte stellata al chiaro di luna”. Una di quelle melasse ottocentesche orribilmente kitsch, amata da Gogol, come dice il programma casereccio che abbiamo sotto gli occhi.
Ritenendo opportuno non rischiare troppo, strisciamo via il più cautamente possibile, e durante la fuga sbirciamo il tavolo del rinfresco sul quale ci pare di adocchiare (speriamo di sbagliarci: forse è solo un colpo di caldo) un gran piatto di cetrioli sottaceto accanto a diverse bottiglia di vodka.
La giornata finisce così, senza aver visto gli acquerelli, ma almeno abbiamo salvato la pelle.

Colonia Julia Felix Lucus Feroniae
Venti secoli fa era una cittadina da niente sulla via Tiberina (oggi è a un passo dalla barriera dell’autostrada del sole Roma Nord, con un grazioso piccolo museo e una costante brezza che soffia da ponente), non più di qualche centinaio di abitanti, ma aveva il suo foro, le terme, il tempio e quattro strade in croce, debitamente lastricate dei soliti pietroni questa volta non neri di selce, ma chiari di calcare locale.
Profumo di mentuccia e cicale. Solitudine (in questi posti poco glamour ci accorgiamo di essere quasi sempre beatamente dimenticati dai turisti). Mentre gironzoliamo per il prato da cui ogni tanto spunta una colonna, un muro smangiato, qualche metro di basolato antico, ci chiediamo come doveva essere viaggiare su carri senza sospensioni, o marciare con sandali scomodissimi su queste pietre.
         A questo proposito, tempo fa, dopo una passeggiata sull’Appia Antica, ci è spuntata in testa una delle nostre balzane domande, che abbiamo girato ad amici architetti e ingegneri: un’antica strada romana è una fascia di massi di pietra adagiati uno accanto all’altro su un letto di sabbia e pietrisco. Questi massi non sono mai regolari, quando sarebbe tanto più razionale tagliarli, e non sul posto ma in cava, tutti uguali: quadrati, rettangolari, non importa, ma tutti con lati e angoli coincidenti (vedere i sampietrini ottocenteschi delle strade di Roma, o i masegni di Venezia e Milano). Così da poterli installare rapidamente, in modo industriale (le migliaia di miglia di strade costruite dai Romani erano un’industria o no?).
        Invece, uno diverso dall’altro come sono, la loro messa in opera diventa un complicato lavoro di mosaico artigianale per far combaciare sporgenze capricciose con incavi accoglienti, e viceversa. Insomma un lungo e lento processo da reinventare a ogni colpo di scalpello. Perché?
Nessuna risposta dagli amici presunti competenti. Poi, a forza di cercare, ecco la spiegazione (forse) buona. Quel sistema apparentemente inspiegabile non è altro che un metodo antisismico. La tecnica romana nasce in una zona dove la gente ha imparato presto a riconoscere i capricci della terra ballerina.
Non vogliamo spacciarci per scopritori della soluzione: l’abbiamo trovata su una monografia di Archeo, dove si fa un parallelo con le mura megalitiche costruite con lo stesso sistema a incastro di pietroni, apparentemente casuale, in realtà sapiente. I massi, proprio perché sono incatenati fra loro da sporgenze e incavi, durante un terremoto non scorrono lato liscio contro lato liscio, andando a finire fuori posto. E sulle strade, il passaggio di ruote ferrate poteva certo paragonarsi a una serie continua di mini terremoti. Ci è parso convincente.

“Ha preso la bacchelli!”
Si sente dire, e di solito ci si rallegra per chi l’ha presa.
Invece bisogna stare bene attenti perché la bacchelli è una malattia mortale, manifestatasi per la prima volta nel 1985 e per cui non è ancora stata scoperta la cura. E’ diffusa in un segmento di popolazione ben definito: intellettuali, artisti anziani e poveri.
Alcuni malati sopravvivono per qualche tempo, ma la lista di quelli che sono stati stroncati dal morbo è lunga, e si tratta di caduti famosi che ci hanno lasciati subito dopo averlo contratto: davanti a tutti lo scrittore Riccardo Bacchelli, che le ha dato il nome, poi il cantautore Umberto Bindi, il cineasta Sergio Citti, altri ancora, e il più recente, ma purtroppo siamo certi che non sarà l’ultimo è l’amico poeta Valentino Zeichen che ha ceduto al male pochi giorni dopo che gli era stato diagnosticato.





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