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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Cristiano Ferrarese

1976

Hacca edizioni, Pag. 152 Euro 12,00
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... non voglio essere salvata...io non voglio speranza... via... via... via i preti e le preghiere... cristo e l'acqua benedetta...

...io voglio annegare...
.

Secondo capitolo della trilogia dei matti dell'esordiente celiniano Cristiano Ferrarese, 1976, pubblicato dalle coraggiose edizioni Hacca da Macerata, sicuro approdo per la narrativa italiana di qualità, è una nuova stagione all'inferno di V., che si risveglia e racconta senza pubblico, e scrive fino a farsi sanguinare le mani; del fratello morto, e del suo tempo; siamo nel 1976, che significa il periodo in cui tutti si muovono affannosi e infelici: a un passo dal Settantasette.

È il boom economico, il degrado lento della società verso una cristallizzazione peccaminosa, l'abitudine della famiglia dentro le quattro mura e la spesa del sabato dopo una settimana di lavoro e di fatica... la domenica in chiesa e poi tutti al cinema...è un orrore senza fine e senza finalità (pag. 15).

Moriremo democristiani. Rabbia e sconforto (p. 114). Estranei al furore e all'integralismo protestante, siamo figli di Giuda, e spesso costiamo meno di trenta denari.

È il libro della disperazione della solitudine. È il comando a uccidere un padre perduto, a violentare il suo cadavere e a evirarlo. Il parricidio come folle unica libertà mentale. Lo spettro del fratello come unico compagno. È la storia di una donna impazzita che si sente suicidata dalla società del Potere. È un abnorme delirio paranoide. Nelle carceri e nel manicomio dove si è in balia di folli travestiti da guardiani o infermieri... sono i Kapò della conservazione dello status quo... ingessati nelle loro divise sporche di sangue e di conformismo (pag. 85).

Da Busalla al carcere di Marassi. Forse ha ucciso, forse ha rubato. Ogni sera prega. Il carcere, scrive Ferrarese, è il luogo dell'assenza: qui perdi te stesso e riacquisti un altro tu (...) sintesi delle tue sofferenze, e delle tue mutilazioni" (pag. 20).

Arrestano l'assassino comunista Renato Curcio. Qualcuno grida "giustizia proletaria trionferà", promettendo un infame liberazione. I comunisti ripetono "colpirne uno per educarne cento", e credono d'essere rivoluzionari. Ideologia sporca di sangue sta per macchiare la coscienza d'un popolo debole e fragile.

Uccidono l'intellettuale e artista Pier Paolo Pasolini. Alieno mistico gettato in questa merda di nazione cattocomunistaclericofascista" (pag. 41). Ucciso perché era un poeta, diverso e frocio, pugno nello stomaco di ogni chiesa e di ogni potere temporale.

1976, terribile terremoto in Friuli. La terra, scrive Ferrarese, ci apre e ci inghiotte. Ritorniamo alla nostra genitrice preoccupata per la nostra corsa verso la distruzione (pag. 58). Si cerca una via d'uscita al dolore.

È la scrittura di una narratrice che non ha più contatto con la realtà. È la follia che giura di incarnare lo Zeitgeist. La follia come espediente per raccontare l'inferma Italia odierna, per svelare quanto fonde siano le radici del male della società che stiamo vivendo. Della corruzione a cui stiamo sopravvivendo.

Ma scrive magnificamente il tobiniano Andrea Di Consoli: I matti non sono rivoluzionari. I matti non cambiano il mondo. Chi li ha strumentalizzati per fini ideologici, ha commesso un crimine. I matti sono malati: malati gravi che non sovvertono il mondo, ma che sono interiormente devastati da crolli, deformazioni visive, angosce, certezze assurde e sentimenti apocalittici. I matti non sono buoni e rassicuranti, né sono gli sconfitti del capitalismo, o le vittime dell'ordine sociale. I matti non vedono verità che altri non vedono. (...) I matti parlano una lingua che non si capisce.

I matti fanno letteratura. La distruzione della punteggiatura, sistematica e puntuale, è la cicatrice dell'artificiale simulazione della loro Weltanschauung, in Ferrarese. E la dimostrazione della libertà assoluta che vive chi narra quel che non ha pretese di verità, a ben guardare, e dalla verità deve restare ben distante. Perché se io è un altro, e io non esiste; e se l'identità del narratore è inficiata e velata dal suo squilibrio, e dal suo disorientamento; e se la realtà è una percezione caotica, magmatica e difforme, allora altro non rimane che attingere a queste pagine, uncinati soltanto alla malata ma seducente scrittura di Ferrarese, pensandole come un videoclip di Gondry o di Corbijn, un flash dopo l'altro, in attesa della scarica elettrica finale. Il comando finale.



di Gianfranco Franchi


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