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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Marco Minicangeli

Calypso Bar

Edizioni Ensemble, Pag. 190 Euro 15,00
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Leggendo questo libro dopo la trilogia della storia sporca mi è venuto da pensare che sia servito, fra l’altro, ad accompagnare dolcemente il distacco da qualcosa a cui l’autore era rimasto profondamente legato. Una specie di disassuefazione graduale. Simile è l’ambientazione (su cui torneremo fra poco), e il giornalista Massimo Foschi non può non ricordare il poliziotto Alessio Zeni, per diversi tratti della personalità (anche di questi faremo menzione) protagonista della riuscitissima trilogia (La Storia sporca, All’ombra del suo corpo, Conti in sospeso). Ma qui, diversamente dalla trilogia, l’autore parla in terza persona, quasi volesse guardare la storia da un punto di vista esterno, più distaccato. Infine, ed è gustoso il dettaglio, si concede un riferimento alla storia sporca per bocca di un archivista del giornale, ex agente di polizia. Qui esattamente si chiude il cerchio, ripercorrendo tutto il tragitto interno-esterno e polizia-giornalismo. Da chi agisce a chi guarda e racconta. Non mi si fraintenda: il coinvolgimento dell’autore c’è interamente, nessuna emozione va perduta.
   Torniamo all’ambientazione, ricordando che anche questo romanzo esprime squisitamente tutte le caratteristiche del noir.
   Lo sappiamo, il noir è fortemente legato al contesto. Non si potrebbe ambientare un noir su una nave da crociera. Nemmeno in un antico castello scozzese. Il noir nasce radicato su un territorio, che è sempre un contesto urbano, di cui va scavare gli strati più oscuri, le ferite più croniche e irriducibili. Non solo, ma deve anche saper cogliere i legami nascosti che collegano strati diversi e apparentemente inconciliabili del tessuto sociale. È dunque, il noir, necessariamente contestualizzato nello spazio e nel tempo storico. Ne deriva spesso una denuncia. Non occorre che sia guidata da una precisa intenzione, perché la denuncia scaturisce dai fatti stessi, che tracciando i contorni di un quadro sociale ne evidenziano il degrado.
   Con queste premesse, non si fa fatica a riconoscere la propensione di Marco Minicangeli a maneggiare gli ingredienti giusti.
   L’autore non trascura nessuno dei mali che affliggono le nostre grandi città, e Roma in particolare. Le accorate descrizioni delle bellezze centro storico (cammei piccoli e per questo intensi) che caratterizzavano specialmente alcuni momenti della trilogia, e quelle dolorosamente partecipi delle periferie sfregiate, che qui prevalgono, testimoniano un amore ferito che è uno degli elementi emotivi dominanti nelle sue storie.
Non trascura niente, dicevo. La malavita, la droga, le furberie dei piccoli delinquenti, ma anche la corruzione e il cinismo dei potenti e dei ricchi. E ci sono per contro la brama di riscatto e i momenti di coraggio, come la rivolta delle madri di Primavalle contro gli spacciatori. C’è la criminalità grande e piccola. Anche quella strisciante nel chiuso delle famiglie, come la violenza domestica di cui talvolta sono vittime le donne. E l’altro grande crimine “bianco”, quello degli imprenditori dei cantieri insicuri, dove è così facile morire per il solo fatto di essere operai.
   Se nella trilogia della Storia sporca ci portava spesso a conoscere i segreti del centro storico, in questo Calypso Bar Minicangeli si concentra sulle periferie. Periferie di ogni tipo: quelle povere e degradate e quelle che sono zone residenziali esclusive, con ville lussuose protette da guardie del corpo. L’autore è uno specialista nel tracciare collegamenti trasversali, trame che passano attraverso le varie fasce sociali scoperchiando i sepolcri imbiancati. E non ci sono sconti per nessuno.
   Il bar questa volta dà il titolo al romanzo. Ma è sempre un elemento centrale nei noir di Minicangeli.
Il bar come luogo di aggregazione, quasi un’agape mistica, un gruppo di auto mutuo aiuto. Si sa che il bar è un’istituzione nella tradizione italiana. Pensiamo al classico Bar Sport di Benni. Il piccolo bar ricrea anche dentro la città il contesto del borgo. Un bar come il Calypso è un rifugio dove si viene accettati come si è, dove ci si aiuta sommessamente. Quasi un sostituto della famiglia. Indispensabile per gli sradicati, i disadattati. È anche il luogo dove spesso si ritrovano gli amici d’infanzia. A questo proposito è significativo l’episodio del Prologo, che riguarda la preadolescenza del protagonista e il suo rapporto con un amico meno fortunato. In quella fase della vita spesso ci si trova davanti a un crocevia. A volte la scelta di una strada piuttosto che un'altra è un fatto quasi inconsapevole, perfino casuale. In particolare nell’ambiente della periferia si aprono molte strade rischiose, e imboccarle è questione di un attimo. Può accadere qualcosa che lascia un segno per sempre. L’empatia dell’autore verso gli sbandati, gli esclusi, i pesci piccoli della malavita, nasce da questa consapevolezza. Più volte si ribadisce che il protagonista è stato “raddrizzato” dal padre, ma non tutti hanno avuto la stessa fortuna.
   Lo stile asciutto traccia azioni veloci, senza fronzoli, e tuttavia si sofferma sui dettagli più semplici. Mettere lo zucchero nel caffè, posare la tazzina, aprire una porta, salutare, fare una doccia. È interessante osservare questo fenomeno: l’uso di dettagli quotidiani non appesantisce il racconto, anzi ha l’effetto opposto di creare un quadro minimalista, ancor più “prosciugato”, essenziale. Il protagonista è rappresentato nella sua realtà tutt’altro che eroica. Le angherie del direttore, i rapporti problematici con le donne, un tenore di vita non certo entusiasmante. Quelli di Minicangeli sono antieroi dotati di una strana rassegnazione armata. Non si arrendono mai, ma sono del tutto disincantati riguardo alle conseguenze dei loro gesti. L’apparente banalità della loro vita “sfigata” è tutt’altro che piatta. Portano dentro una vecchia ferita, un conto che non si è mai chiuso. Massimo non fa eccezione. Si lascia seguire dal lettore rivelandosi un po’ per volta. Nel suo caso c’è una faccenda dolorosa che riguarda la morte del padre. Alessio (della storia sporca) era un poliziotto, Massimo è un giornalista. Si assomigliano. Tutt’e due indagano, non tanto per mestiere quanto per un’intima necessità. C’è un disperato desiderio di giustizia che li porta a violare i confini della professionalità. Disperato perché è intriso della consapevolezza che non ci sarà mai davvero una giustizia definitiva. Quest’idea non li ferma, anzi è un pungolo incessante. Mi sorge un dubbio: non sarà per caso, questo romanzo, il primo di una nuova trilogia?

di Giovanna Repetto


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Gustoso


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