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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Teodoro Lorenzo

Castore e Polluce

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Sapevamo che da qualche parte esisteva. Come le orche, il sole di mezzanotte, le tempeste di sabbia, le piramidi, le comete, i gorilla: esistono, come no, ma in fondo: chi li ha mai visti? Per quanto ci riguarda poteva benissimo trattarsi di una diceria, una leggenda o una visione. Una mattina però ci trovammo con il naso incollato alla finestra e gli occhi sgranati dallo stupore. Era lì; sotto di noi, sopra, di lato, dappertutto. Soffice e bianca, non ancora straziata dalle gomme delle auto, intonsa di orme umane. Undici anni, appena arrivati da Lentini, avevamo visto la neve. Mio padre volle immortalare lo storico incontro: i suoi gemellini e la neve. La fotografia ci ha fissato per sempre su una rudimentale slitta di legno e un sorriso estatico. Tommaso davanti ed io dietro: lui pilota, io frenatore. Come al solito, come sempre. Da quel giorno lontano abbiamo rinnovato infinite volte il miracolo della neve. Non l’abbiamo più attesa dietro i vetri della finestra, neve di città, subito infradiciata di acqua e ruote ma siamo andati a cercare quella di montagna, densa e pulita. Da soli, perché fatta la foto e compiuto il suo dovere, per mio padre la questione era chiusa. Di neve non voleva neanche sentir parlare; lui era rimasto un uomo di mare. Noi invece la neve l’abbiamo amata da subito, al punto da farne il centro della nostra vita: siamo diventati atleti di bob. Scelte inconsulte, sentenziò nostro padre. Ma in fondo se lo aspettava. Nascere gemelli è di per sé un’anomalia, un’eccezione alle leggi della natura, della statistica e della matematica. Turba l’equilibrio, scompagina i consueti modi di vivere e di pensare, spacca l’ordinario e da quella fenditura può penetrare qualsiasi insensatezza. Da esseri anomali non potevano che scaturire scelte anomale. Il bob gli appariva una follia (perché non il calcio come tutti?), come pure la neve (perché non il mare come me?), ma eravamo gemelli, e allora tutto si spiegava. Ma anche lui oggi è qui, da qualche parte in mezzo al pubblico. Potrebbe essere un giorno di grande festa per tutta la famiglia e non voleva mancare. A vederci nessuno direbbe che siamo gemelli, io e Tommaso, ma nessuno più di noi due lo sa. Lo sentiamo dentro le viscere del nostro essere. È una intesa che va oltre l’umano; un affiatamento animale fatto di impulsi, vibrazioni e segnali elettrici. Noi comunichiamo con la pelle come gli squali, con le vibrisse come i gatti. È qualcosa di così profondo che strabilia. Non è la vicinanza o la comunanza di due esseri umani. È un legame misterioso, sconosciuto e insondabile. Io lo annuso e so qual è il suo umore, io lo tocco e ne percepisco le tensioni. Non c’è bisogno che parli per sapere cosa dirà. Non c’è bisogno di vederlo per conoscere le sue reazioni. Mi basta ascoltarne il respiro. Così lui con me. Ma la nostra è anche una condanna. Siamo imprigionati a vita dentro una gabbia senza sbarre dalla quale ci è impossibile fuggire. Il resto dell’umanità non può che rimanere ai margini della nostra vita, al massimo può avvicinarsi alla gabbia e osservare meravigliata le acrobazie dei due animali ma niente di più, non avendo pelle di squalo o vibrisse. È il nostro destino. Io e lui, lui ed io: una persona sola. Questa è anche la ragione della nostra perfezione tecnica. Non siamo due persone dentro questo proiettile d’acciaio, ognuno con i suoi battiti, il suo respiro, la sua paura ma una persona sola; gli stessi battiti, lo stesso respiro. Lo stesso coraggio. Noi ci sentiamo nell’aria e ci muoviamo all’unisono, perfettamente in sincrono. Una curva, poi un’altra, pieghiamo il corpo, la testa. Sembriamo il congegno mirabile e perfetto di un robot. La gara è iniziata. Dopo le prime paraboliche il vento ci sbatte in faccia la sua forza e le lamine dei nostri pattini ci schizzano addosso centinaia di minuscole scaglie di ghiaccio. La pista la conosciamo a memoria, l’abbiamo studiata e ristudiata: un chilometro e settecento metri, diciannove curve. Tracciata su un foglio da disegno, seduti sul pavimento della nostra stanza, lui davanti ed io dietro, l’abbiamo provata e riprovata, curva a destra, trenta metri, curva a sinistra, rettilineo. L’abbiamo memorizzata ed interiorizzata al punto che potremmo scendere ad occhi chiusi. Ci siamo preparati bene, nulla è stato lasciato al caso. Del resto è la gara più importante della nostra vita. Oggi si decide l’equipaggio italiano che dovrà partecipare alle Olimpiadi. Un unico filo lega quel nostro primo incontro con la neve a questo bolide lanciato verso il traguardo. Anni di sacrifici per limare qualche decimo di secondo, allenamenti massacranti, di spinta ed aerodinamica per sconfiggere il tempo. Quel tempo che sgomenta per il suo lento incedere, al cui cospetto si vorrebbe diventare invisibili per non intercettarne lo sguardo di Medusa, noi l’abbiamo affrontato a viso aperto, ghermito e spinto in un angolo. Lo abbiamo spezzettato, sminuzzato, sbriciolato. Il traguardo è vicino, ancora quattro curve. Sarà il nostro trionfo, voliamo come il vento. Tommaso alla partenza mi ha sibilato in un orecchio: “Giurami che non toccherai il freno “. Ed io ho giurato, con la mano aperta. Ancora tre curve. Ma io così freddo in gara, concentrato solo sulla curva successiva, senza altri pensieri che non siano la voglia rabbiosa di vincere, oggi mi trovo ad averne mille; serpenti velenosi che strisciano, si toccano, si riprendono, si salgono sopra. Tutti si muovono attorno ad un solo chiodo, che da giorni mi si è conficcato nella testa: Tommaso è malato. Lui non lo sa, non gliel’ho ancora detto, c’era la gara. Ogni tanto ci fanno dei controlli, solita routine. Stavolta i medici mi hanno voluto chiamare in gran segreto e in tutta fretta. Ho capito subito che si trattava di Tommaso. Di notte il suo respiro si faceva affannoso. Percepivo il sudore leggero conquistare poco a poco tutta la superficie del suo corpo. Come se l’alieno nascosto nelle cellule, tenuto sotto controllo dalla sua volontà durante il giorno, uscisse allo scoperto di notte, quando il sonno annullava i sistemi di vigilanza. “Ci dispiace. Abbiamo voluto chiamarla perché sia lei a dirglielo, troverà parole migliori delle nostre. Suo fratello è malato. Abbiamo trovato nei polmoni un versamento pleurico. Niente di esiziale ma non c’è tempo da perdere. Suo fratello si deve curare. E soprattutto non deve più salire su un bob. Non può più permettersi sudate e infreddature” Ancora due curve. I serpenti sibilano più forte nella mia testa. Anche se oggi vincessimo non potremmo partecipare alle Olimpiadi perchè Tommaso si deve curare. Dovrà lasciare il bob, ed io con lui. Penso che comunque sarà bello lasciare da eroi. Faremo festa, e tutti i nostri familiari saranno con noi. I giornali saranno pieni delle nostre facce. Già mi vedo i titoli delle pagine sportive, nove colonne: “Saranno i gemelli del bob, i nostri Castore e Polluce, a rappresentare l’Italia alle prossime Olimpiadi.”. Vivremo di ricordi e la fiamma di questa vittoria ci scalderà per tutta la vita. Ancora una curva, l’ultima. Ancora un pensiero, l’ultimo. Non è vero che la fiamma di questa vittoria riscalderà i nostri giorni futuri. Ben presto diventerà cenere, cenere fredda e malsana. E i rimpianti avranno il sopravvento consumandoci la vita; il pensiero di quello che poteva essere e non è stato entrerà come un tumore nel nostro cuore e si diffonderà come una metastasi, distruggendoci. Se anche vincessimo non potremmo comunque gioire perché dovrò dire la verità a Tommaso. E aver agguantato le Olimpiadi per vederle sparire un attimo dopo è un dolore che non gli voglio dare. La delusione sarebbe immensa e intollerabile. E vincere senza gioia è la mutilazione più grave per uno sportivo. È un urlo di gioia strozzato in gola. È un bacio dato senza labbra. Un atleta invece mette nel conto la sconfitta, la comprende e l’accetta. Sa che può succedere, la sconfitta è la compagna fedele di ogni agonista. Perdere è una eventualità del tutto naturale. Un altro equipaggio è stato più forte di noi; tutto qui. Volevano vincere, anche loro come noi. E hanno vinto. Triste ma giusto. Non c’è nulla da aggiungere. Non avremo rimpianti, continueremo la nostra vita. Diremo che  è stata la dura legge dello sport; ride solo uno e gli altri piangono. Forse tra qualche anno riusciremo anche a sorridere di tutto questo. Ti ricordi Tommaso, Castore e Polluce ad un passo dalle Olimpiadi, che giorno, che gara! E che sfiga…secondi per soli cinque decimi. Nessuno lo saprà mai; mi terrò per sempre questo segreto nel cuore. Lo sigillerò con il mio dolore e su questa pietra tombale verserò il mio pianto senza lacrime. Guardo la mia mano spergiura appoggiata sul freno, lo toccherò appena. Tommaso non si accorgerà di nulla.



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