RECENSIONI
William March
Compagnia K
Castelvecchi, Pag. 236 Euro 16,00
Compagnia K è il capolavoro di uno dei più grandi narratori del Novecento: William March.
Il romanzo raccoglie la testimonianza di centoventitré soldati americani mandati a combattere in Francia durante il primo conflitto mondiale. Alcuni sono tornati, altri no. Ma la verità è che da una guerra non si può tornare veramente, non come prima. Allora Compagnia K, alla maniera di Spoon River e degli epigrammi sepolcrali dell'Antologia Palatina, costruisce un'epopea esistenziale collezionando i racconti in prima persona di uomini che sono morti in guerra, anche se sono tornati.
William March compie il miracolo letterario di consustanziare secchezza diegetica e ridondanza poetica, e, con una voce unica al mondo, penetra nel mistero tremendo della guerra, della forza irresistibile con cui attrae da sempre soprattutto chi non ha nessun motivo per combatterla: chi non può che perderci tutto.
Perché si va alla guerra? Perché morirvi ucciso è così bello?
Il soldato semplice Walter Webster è stato ingannato: pensava di poter sposare la sua Effie, una volta tornato a casa da eroe: ma ora ha il volto sfigurato, è un mostro e non un eroe, e Effi vomiterà, se solo lui prova a toccarla. Le promesse di gloria sono tutte un'impostura. Alcuni soldati prendono parte al disonorevole sterminio a sangue freddo di un gruppo di soldati tedeschi che si sono arresi. Dopo tutti i discorsi sui Buoni della Libertà, sulle malvagità compiute dai tedeschi, ora possono sapere di essere dei semplici assassini, e riportarsi dei fantasmi a casa. Tutti sono destinati a imparare che la guerra fa schifo; che in guerra si è eroi per caso; che si sopravvive per fortuna; che è tutto politica e pettegolezzi. Tutto è un inganno. Eppure non c'è soluzione.
Il soldato Sylvester Keith dalla guerra ne è uscito pieno di ira e risentimento, e, convinto che una cosa del genere non dovesse più succedere, fonda una "Società per la prevenzione della guerra" (perché gli uomini non sono né stupidi né cattivi, solo ignoranti, e basta istruirli): ma i suoi discepoli, per difendere il loro Paese dagli orrori contro i quali li ha istruiti, un giorno prendono e si arruolano in massa per una nuova guerra.
La guerra è un mistero in cui ci si immerge con paura e desiderio, perché, dice il soldato semplice Theodore Irvine, "è meglio soffrire le pene dell'inferno che raggiungere la libertà del nulla". C'è un soldato sconosciuto nel romanzo, un soldato che è rimasto con il ventre squartato e le budella attorte al filo spinato, e che è voluto divenire sconosciuto strappandosi la medaglietta di riconoscimento: forse all'inizio ha pensato di farlo perché al suo paese nessuno potesse tributargli onori e qualche altro ragazzo come lui rimanesse incantato dalla retorica che si sarebbe fatta sulla sua morte: ma, alla fine, quello che scopre è che, con il suo gesto di totale annullamento, ha fatto di più: "ha sconfitto l'inevitabile stupidità della vita".
Se William March ha mai pensato di poter salvare qualcuno dalla guerra, di certo non ha mai creduto di poterlo fare ostentando i suoi orrori nell'ordinata attività pedagogica di una "Società per la prevenzione della guerra". Forse, fiducioso come Vittorini che il mestiere dello scrittore è ancora quello di penetrare con un aggettivo nella fortezza della nostra percezione della realtà, per liberarla,
William March ha avuto il coraggio radicale di usare il male come cura, perché avere a che fare con la guerra, attraverso il suo racconto; avere a che fare con l'orrore e la bellezza negati dalla calma stupidità che vi passa in mezzo, ci salva, forse, da quella serie di gesti e convinzioni che fanno della vita una inevitabile stupidità che ci porta al massacro.
di Pier Paolo Di Mino
Il romanzo raccoglie la testimonianza di centoventitré soldati americani mandati a combattere in Francia durante il primo conflitto mondiale. Alcuni sono tornati, altri no. Ma la verità è che da una guerra non si può tornare veramente, non come prima. Allora Compagnia K, alla maniera di Spoon River e degli epigrammi sepolcrali dell'Antologia Palatina, costruisce un'epopea esistenziale collezionando i racconti in prima persona di uomini che sono morti in guerra, anche se sono tornati.
William March compie il miracolo letterario di consustanziare secchezza diegetica e ridondanza poetica, e, con una voce unica al mondo, penetra nel mistero tremendo della guerra, della forza irresistibile con cui attrae da sempre soprattutto chi non ha nessun motivo per combatterla: chi non può che perderci tutto.
Perché si va alla guerra? Perché morirvi ucciso è così bello?
Il soldato semplice Walter Webster è stato ingannato: pensava di poter sposare la sua Effie, una volta tornato a casa da eroe: ma ora ha il volto sfigurato, è un mostro e non un eroe, e Effi vomiterà, se solo lui prova a toccarla. Le promesse di gloria sono tutte un'impostura. Alcuni soldati prendono parte al disonorevole sterminio a sangue freddo di un gruppo di soldati tedeschi che si sono arresi. Dopo tutti i discorsi sui Buoni della Libertà, sulle malvagità compiute dai tedeschi, ora possono sapere di essere dei semplici assassini, e riportarsi dei fantasmi a casa. Tutti sono destinati a imparare che la guerra fa schifo; che in guerra si è eroi per caso; che si sopravvive per fortuna; che è tutto politica e pettegolezzi. Tutto è un inganno. Eppure non c'è soluzione.
Il soldato Sylvester Keith dalla guerra ne è uscito pieno di ira e risentimento, e, convinto che una cosa del genere non dovesse più succedere, fonda una "Società per la prevenzione della guerra" (perché gli uomini non sono né stupidi né cattivi, solo ignoranti, e basta istruirli): ma i suoi discepoli, per difendere il loro Paese dagli orrori contro i quali li ha istruiti, un giorno prendono e si arruolano in massa per una nuova guerra.
La guerra è un mistero in cui ci si immerge con paura e desiderio, perché, dice il soldato semplice Theodore Irvine, "è meglio soffrire le pene dell'inferno che raggiungere la libertà del nulla". C'è un soldato sconosciuto nel romanzo, un soldato che è rimasto con il ventre squartato e le budella attorte al filo spinato, e che è voluto divenire sconosciuto strappandosi la medaglietta di riconoscimento: forse all'inizio ha pensato di farlo perché al suo paese nessuno potesse tributargli onori e qualche altro ragazzo come lui rimanesse incantato dalla retorica che si sarebbe fatta sulla sua morte: ma, alla fine, quello che scopre è che, con il suo gesto di totale annullamento, ha fatto di più: "ha sconfitto l'inevitabile stupidità della vita".
Se William March ha mai pensato di poter salvare qualcuno dalla guerra, di certo non ha mai creduto di poterlo fare ostentando i suoi orrori nell'ordinata attività pedagogica di una "Società per la prevenzione della guerra". Forse, fiducioso come Vittorini che il mestiere dello scrittore è ancora quello di penetrare con un aggettivo nella fortezza della nostra percezione della realtà, per liberarla,
William March ha avuto il coraggio radicale di usare il male come cura, perché avere a che fare con la guerra, attraverso il suo racconto; avere a che fare con l'orrore e la bellezza negati dalla calma stupidità che vi passa in mezzo, ci salva, forse, da quella serie di gesti e convinzioni che fanno della vita una inevitabile stupidità che ci porta al massacro.
di Pier Paolo Di Mino
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