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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Luca Pecoraro

Eva

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Se solo mia Sorella sapesse che quella robaccia – con tutta la buccia, poi! - l'ho ingerita per salvare lei e i nostri cari forse - forse… - smetterebbe di tagliarmi sprezzante la strada ogni volta, trascinando la sua caviglia disarticolata a mò di trofeo.
Pensare che era tutto così ovvio, avrei dovuto capirlo sin da quando agli altri ho indicato le piante maledette per la prima volta, convinta non esistesse altra soluzione.
Sarebbe bastato un singolo rimprovero, uno soltanto. E invece gli eventi si sono trascinati col passo malfermo delle nostre non-vite.
Mamma stringendomi il braccio si limitava ad additare un punto verso le montagne ma da giorni non vedevo che minuscoli focolari soffocati, così di rimando la spingevo verso quegli alberi coi frutti verdi e rotondi, irritandola ancor di più. Quando invece provavo ad avvicinare Papà lei abbassava lo sguardo, lasciando intendere che ingerendoli non avrei avuto scampo. Lui, neppure rispondeva.
Non era, non lo era mai stato, il tempo delle domande: dovevamo spingerci verso quei fuochi come falene affamate nonostante fossimo sfiniti, lenti, i vestiti logori, stomaci tanto vuoti da sentirci l'eco.
È buffo pensarci, ora. In effetti ha sempre avuto tutto un senso, anche quando di notte era la nostalgia di un passato che non ricordavo a farmi rabbrividire, non l’oscurità.
Mia Sorella è stata la prima a dimenticarsi, credo sia merito suo se ben presto anche Mamma e Papà rinchiusero il loro passato in una stanza senza serrature.
Sfamarsi è bene, pensare è peccato. Mia Sorella è la Notte.
Una volta, al tempo del Primo Inverno, non era così difficile. Loro erano milioni, ovunque; giocavamo a nascondino mimetizzati tra la neve e come compagni fedeli non reagivano quando venivano scoperti. Non era ancora la fase del liberi tutti, quella.
L’ingordigia ha stuprato il futuro, prevedibile no? Non ci siamo resi conto che sterminandoli avremmo eliminato la nostra principale risorsa e ora eccomi qua!, costretta a mirare quegli ultimi fuochi distanti come l'orizzonte, mentre le forze dei miei cari si indeboliscono di ora in ora.
Ogni volta che li supero per guardarli, il velo nei loro occhi è sempre più assoluto. Anche per questo, da che ho memoria, chiudo la fila: camminare fissando le loro ombre mi ha aiutata a ritardare la decisione. Ritardarla, nulla più. Ma vale la pena raccontarlo?, anche questo oramai è parte di un passato prossimo che tramonterà insieme a me.
Dopo il sacrificio la Famiglia riprenderà a cacciare: di fronte a ciò, cos’è il mio dolore?
Se solo sparisse il formicolio alle gambe… È tutto così veloce, ora. Veloce da spaventarmi. Non avrei dovuto mangiarla. Ma andava fatto, è stato un atto necessario, sì.
Fingere, dunque.
Li amo così tanto da temerli: sono sicura che al minimo sospetto Papà mi caccerebbe dal gruppo!, allora sì che sarebbe un disastro: finirei da sola o con chissà chi, non sarebbe affatto divertente.
È dal risveglio che mi sento piena di energie, dev'essere l'effetto del veleno; una pellicola – la stessa che contiene le prede, lo sento - mi sta ricoprendo la carne purulenta nelle estremità delle dita; provo a strapparla ma questa ricresce senza pietà, se ne frega del mio volere. Dalle ferite sgorga un liquido denso e scuro, se alzo le mani lo vedo colare fino al gomito, per timore di essere scoperta chiudo i pugni e cerco di procedere più lenta che posso, evitando di dare importanza a quella cosa che da dentro ribolle e mi vorrebbe veder correre, saltare come una preda qualsiasi.
Devo resistere, trattenermi; guardo le schiene della mia Famiglia consapevole che sarà l'ultima volta e mentre li sto raggiungendo per stringerli forte a me uno strano fluido incolore scivola dagli occhi, giù, senza che mi sia ferita.
Immobile, lecco le gocce e passo la lingua tra i denti: non so come comportarmi, mia Sorella annusa l'aria e si guarda attorno alla ricerca di un’anomalia.
Io mugugno tenendo lo sguardo a terra per rassicurarla, mi avvicino al ruscello plasmato dai residui di neve con finto disinteresse.
Ma è tutto inutile, certo; ogni movimento a scatto è via via più difficile da controllare, il calore del sole riverbera tra i flutti mostrando impietoso ogni cambiamento del mio corpo malato: la faccia, liscia da non poter trattenere pioggia, rivela un’altra me che mai avrei voluto immaginare.  I capelli ricrescono, biondi e mossi come le onde del lago che adesso ricordo esistere al di là delle montagne.
Poi, la fine: senza motivo, ho l’istinto di raccogliere una foglia trasportata dalla corrente e chinandomi le orecchie iniziano a pulsare, un tu-tum tu-tum dall’interno sembra volermi avvertire che il tempo è maturo. Dallo stupore scivolo a terra; una volta sdraiata, immagino che sotto strati di fanghiglia sia nascosto il più bello dei sorrisi.
È questa, la Vita?
Il vento mi rigonfia il petto, apro e chiudo un paio di volte la bocca schioccando la mandibola, lascio che a sgorgare siano le uniche parole possibili.
Le prime dopo anni.
Le prime da sempre.
Il banchetto è pronto, gli inviti sono stati spediti.
«Vi… Vi amo!» urlo gioiosa alla Famiglia, mentre Mamma Papà e Sorella non riconoscendomi sgomitano per sbucciare me, la preda inattesa.
Sfamarsi è bene, pensare è peccato. Io sono la Vita.
Offrendomi come ultima pietanza, prima di chiudere gli occhi allungo le braccia per sfiorare l'orizzonte e insieme ci accorgiamo che quei fuochi non sono poi così distanti.





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