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CLASSICI

Alfredo Ronci

I dubbi sacrosanti di un cattolico: 'Il quinto evangelio' di Mario Pomilio.

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Immaginate in quegli anni turbolenti (1975/1976) una singolar tenzone: chi, alla fonte del sapere, s'abbeverava dello spirito ribelle, prima del vuoto pneumatico, di Rocco e Antonia (Porci con le ali), e chi, preso dal turbine organizzativo del nuovo cattolicesimo che sarebbe diventato potente – Comunione e Liberazione – rifletteva sui dubbi dogmatici di un libro (Il quinto evangelio) di uno scrittore prima quasi comunista e poi finito nelle file della Democrazia Cristiana: Mario Pomilio.

Detta così può sembrare boutade: macché, frotte di studenti con loden sbandieravano il libriccino con copertina di Pablo Echaurren da una parte, e dall'altra i meno smaliziati (ma poi valli a scoprire!) della nuova gioventù giussaniana s'accompagnavano con la copertina seriosa del tomo Rusconi. Uno scontro letterario-ideologico che non fece vittime, ma che lasciò qualche anima in pena.

Allora saltai ambedue gli ostacoli, questione di orticaria: gli anni mi avrebbero suggerito ben altre riflessioni e considerazione. Sì perché, tralasciando per ora Porci con le ali (ne riparleremo), Il quinto evangelio è un gran bel romanzo. Anche se sulla definizione di 'romanzo' ci si potrebbe andare coi piedi di piombo: diciamo piuttosto un congegno narrativo che ora andrebbe di moda se non fosse che Pomilio, perché intellettuale e scrittore di gusto, evitò la deriva nazional-popolare di un'indagine pseudo religiosa. Rimane di sicuro un'investigazione (investigazione essenzialmente sulla fede) ma attraverso un'apparecchiatura che si serve di testi veri e finti: un libro tutto d'immaginazione che però ha il suggello della più assoluta credibilità ed anche uno straordinario excursus storico che copre quasi dieci secoli di storia.

Andiamo con ordine. In Germania, precisamente a Colonia, nel 1945 un giovane ufficiale americano, Peter Bergin, trova alcuni documenti che lo mettono sulle tracce di un vangelo ancora inedito e dopo mille dubbi dedica la propria vita alla ricerca di questo e delle sue implicazioni.

Nella lettera che apre il libro e che il Bergin invia al segretario della Pontificia Commissione Biblica scrive: ... ogni volta che il Cristianesimo affronta una delle sue svolte ovvero si prepara a una delle sue riscosse, riaffiora il miraggio d'un evangelo andato perduto, nel quale il cristiano traduce in termini sensibili quel tendere inappagato verso un contesto di verità ancora da scoprirsi – o propriamente, di valori ancora da attuarsi – che gli proviene dalla promessa di un supplemento di rivelazione.

Il libro si chiude con un'altra lettera, quella della 'discepola' (un caso la definizione che si sono dati i tanti che raccolsero l'opera del Bergin nel frattempo morto?) Anne Lee in cui 'si aggiusta' il rilievo da dare ad una ricerca storiografica e dogmatica. Su questa appunta: E' vero semmai che essa includeva anche il bisogno, velleitario quanto si vuole, visionario quanto si vuole, di rincorrere un'evidenza per incontrare una speranza.

Nel mezzo, tra le due missive, una cavalcata apparentemente credibile, per l'impressionante precisione della costruzione, tra preti, monaci, semplici Viandanti certi della verità da trasmettere al popolo, martiri, poveri cristi (è il caso di dirlo!) e la Santa Inquisizione nella sua perentorio opera di dissuasione e di conservazione dello status quo.

Perché il quinto evangelio, nella forma data da Pomilio, cioè di una identità in continua trasformazione (Soltanto così potrei infatti esser sicuro di quanto incomincio a sospettare: che cioè questi Viandanti seguono in fondo il Vangelo di sempre, ma lo seguono così fedelmente da farlo parere irriconoscibile) è l'antitesi dell'immobilità dogmatica e politica della Chiesa. E dove questa stessa, nel romanzo, appare aggressiva solo ed unicamente per la conservazione dei propri privilegi. Qualcuno, all'interno, intuisce la grazia degli 'eretici', la loro verginità di fondo, l'amore disconnesso dal profitto: Non sono dei fanatici e tanto meno dei violenti. Né mettono in discussione uno solo dei nostri dogmi. Ma tu avverti lo stesso nel loro atteggiamento qualcosa d'inflessibile, che assomiglia alla indisciplina: come se, ecco, tralucesse al fondo dei loro occhi d'innocenza, nelle parole che pronunziano, nel modo in cui le pronunziano, l'equanime, tranquilla, inviolabile intransigenza di quelli di cui si dice San Paolo che non si sentono "sotto la legge, ma sotto la grazia", e appunto questo fatto li invogliasse a considerarsi gli unici "figli di Dio senza macchia in seno ad una generazione perversa e sviata.

In questa finzione veritiera Pomilio sa di giocare carte 'pesanti': discettar di libero arbitrio, di drammi, di dogmi, della mano lunga del potere (quello ecclesiastico, certo!), di verginità spirituale, attraverso un espediente, quello della ricerca di un vangelo che sembra esserci ma che ogni volta sembra sfuggire di mano, come una sorta di santo Graal all'ennesima potenza, che testimonia però una ricerca genuina delle radici del Cristianesimo e dell'esplorazione della fede. Perché questa, ci permettiamo di dire, proprio come lo stesso 'misterioso' evangelio, secondo le parole di un altro discepolo di Bergin: toccherà di scoprirlo solo a chi veramente crede che ci sia.

Sconsiderata dunque, tornando alle radici iniziali, la contrapposizione ideologica e letteraria di quegli anni settanta: Porci con le ali voleva essere rivoluzionario, ma non ci riuscì e nemmeno fu creatura narrativa di gran rispetto; Il quinto evangelio, sorta di contraltare ideologico e 'bibbia' della nuova generazione di cattolici, era, oltre che romanzo riuscitissimo, una spina al fianco dell'immobilismo clericale. Quelli di Comunione e Liberazione non lo capirono, perché le punture di questo erano impenetrabili alla forte corazza di cinismo.





L'edizione da noi considerata è:



Mario Pomilio

Il quinto evangelio

Rusconi - 1975











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