RECENSIONI
Abelardo Castillo
I mondi reali
Del Vecchio editore, Traduzione e cura di Elisa Montanelli, Pag. 272 Euro 16,00
Si dovrebbe partire appunto dal concetto di realtà, che ora più che mai si presta a ogni tipo di ipotesi e di speculazione: là dove i filosofi hanno cominciato a battere la fiacca i fisici si sono messi a darci dentro. Ma gli scrittori lo sapevano già. Parlo di Poe, di Borges, di Kafka… Ho sparato nel mucchio, perché l’elenco è infinito. Gli scrittori lo sanno e lo sanno da sempre. Che la realtà è una e tante, che non è la stessa per tutti, che non è scontata in nessun momento.
Riguardo al particolare approccio di Castillo sono illuminanti le parole della curatrice:
Al contrario di Borges che afferma che in quanto finzione tutta la letteratura appartiene alla sfera fantastica, Castillo è convinto che anche i sogni, l’immaginazione e naturalmente la letteratura facciano parte della stessa realtà…
Per altro, trattandosi di un’antologia che attinge a diverse raccolte, quindi a diversi momenti letterari, è possibile osservare un maggiore o minore grado di adesione alla (comunemente intesa) realtà. Ma questa distinzione è fuorviante, perché anche nelle storie apparentemente più realistiche permane un tale grado di distorsione suggestiva da renderle omogenee con quelle decisamente surreali. Ad esempio nei capitoletti concatenati di Patron, tratto da Racconti Crudeli, l’odio circola come un personaggio aggiuntivo, così carnoso e permeante da infondere al racconto un sapore di intensa allucinazione.
Il silenzio si riempì allora di una presenza estranea e minacciosa, che forse assomigliava un po’ alla pazzia; sì, una sera, mentre lei stava arrivando con la lampada, il vecchio guardò bene il suo viso: un’espressione estatica, interminabile (…) come se l’abitudine di starsene in silenzio, serrando i denti, mordendo un qualche gemito che le saliva a stoccate dallo stomaco, le avesse pietrificato la pelle.
Quest’alchimia che trasforma eventi reali in pura allucinazione è evidente in Le pantere e il tempio, dove un pacifico scrittore scivola dall’elaborazione di una scena paurosamente crudele alla tentazione di provare nella realtà domestica la stessa scena come in un teatro, ma la scusa di una sperimentazione a fini letterari non regge quando diventa palese la sottigliezza del confine fra la normalità e l’orrore.
E nonostante tutto so che un giorno commetterò una disattenzione, che inciamperò in un mobile o che mi tremerà semplicemente la mano e lei aprirà gli occhi e mi guarderà terrorizzata (…) e allora mi riconoscerà, magari griderà, e so che a quel punto non potrò fermarmi.
E’ l’agghiacciante consapevolezza dell’uomo appostato accanto al letto della moglie con la scure in mano. Non c’è ragione al suo gesto, se non un’intrinseca ineluttabilità.
L’autoreferenzialità dello scrittore si affaccia spesso fra le pagine, insieme all’autoironia e al disincanto con cui lo scrittore abita il mondo. Le raffinate citazioni si mescolano al gergo del quotidiano nei racconti di sapore autobiografico, come I riti o La creazione di un piccolo fiore è lavoro di ere. Così come spesso è presente il riferimento all’Argentina, sua terra natale.
Altri racconti sono dichiaratamente surreali, come il bellissimo Triste le Ville, il cui protagonista si trova imprigionato in un non-luogo fuori dal tempo a cui è approdato salendo sul treno con un biglietto non suo, usurpando un altro destino. Memorabile è un passaggio in cui scalza da dentro il flusso del tempo dilatandone i frammenti e smascherando le pause in cui si annidano i crocevia dell’esistenza.
Due minuti. Quello che ora scriverà la mia mano è qualcosa di più di una frase, lo so miseramente: nell’eternità intera non succedono tutte le cose che succedono in due fragili minuti umani. (…) Perché due minuti sono fatti di cose così: un treno che emette un lungo fischio, poi un altro più corto, annunciando l’inaspettata puntualità della sua partenza. Un piccione che vola miseramente fra la fuliggine, sotto la volta della stazione, piccione che ora ricordo con meraviglia ma che allora mi parve meschino, un progetto incompiuto di uccello (…) Il fulgore di una moneta o di un tappino di latta, che mi chiamavano dal pavimento del binario: forse era un cerchietto d’unto, uno spregevole tondino di saliva, ma palpitò per un secondo, come una stella. Una pagina lacera, di giornale…
I dettagli dilatati sgranano la realtà come un tessuto che il logorio rende trasparente, ed ecco che il passaggio al surreale è già avvenuto. Ha dunque poco senso, dicevo, distinguere nelle raccolte di Castillo i vari generi, dal momento che ogni elemento di costruzione, dal nudo mattone al pizzo della tendina, può giocare qualsiasi ruolo nell’imprevedibile alchimia del suo edificio.
di Giovanna Repetto
Riguardo al particolare approccio di Castillo sono illuminanti le parole della curatrice:
Al contrario di Borges che afferma che in quanto finzione tutta la letteratura appartiene alla sfera fantastica, Castillo è convinto che anche i sogni, l’immaginazione e naturalmente la letteratura facciano parte della stessa realtà…
Per altro, trattandosi di un’antologia che attinge a diverse raccolte, quindi a diversi momenti letterari, è possibile osservare un maggiore o minore grado di adesione alla (comunemente intesa) realtà. Ma questa distinzione è fuorviante, perché anche nelle storie apparentemente più realistiche permane un tale grado di distorsione suggestiva da renderle omogenee con quelle decisamente surreali. Ad esempio nei capitoletti concatenati di Patron, tratto da Racconti Crudeli, l’odio circola come un personaggio aggiuntivo, così carnoso e permeante da infondere al racconto un sapore di intensa allucinazione.
Il silenzio si riempì allora di una presenza estranea e minacciosa, che forse assomigliava un po’ alla pazzia; sì, una sera, mentre lei stava arrivando con la lampada, il vecchio guardò bene il suo viso: un’espressione estatica, interminabile (…) come se l’abitudine di starsene in silenzio, serrando i denti, mordendo un qualche gemito che le saliva a stoccate dallo stomaco, le avesse pietrificato la pelle.
Quest’alchimia che trasforma eventi reali in pura allucinazione è evidente in Le pantere e il tempio, dove un pacifico scrittore scivola dall’elaborazione di una scena paurosamente crudele alla tentazione di provare nella realtà domestica la stessa scena come in un teatro, ma la scusa di una sperimentazione a fini letterari non regge quando diventa palese la sottigliezza del confine fra la normalità e l’orrore.
E nonostante tutto so che un giorno commetterò una disattenzione, che inciamperò in un mobile o che mi tremerà semplicemente la mano e lei aprirà gli occhi e mi guarderà terrorizzata (…) e allora mi riconoscerà, magari griderà, e so che a quel punto non potrò fermarmi.
E’ l’agghiacciante consapevolezza dell’uomo appostato accanto al letto della moglie con la scure in mano. Non c’è ragione al suo gesto, se non un’intrinseca ineluttabilità.
L’autoreferenzialità dello scrittore si affaccia spesso fra le pagine, insieme all’autoironia e al disincanto con cui lo scrittore abita il mondo. Le raffinate citazioni si mescolano al gergo del quotidiano nei racconti di sapore autobiografico, come I riti o La creazione di un piccolo fiore è lavoro di ere. Così come spesso è presente il riferimento all’Argentina, sua terra natale.
Altri racconti sono dichiaratamente surreali, come il bellissimo Triste le Ville, il cui protagonista si trova imprigionato in un non-luogo fuori dal tempo a cui è approdato salendo sul treno con un biglietto non suo, usurpando un altro destino. Memorabile è un passaggio in cui scalza da dentro il flusso del tempo dilatandone i frammenti e smascherando le pause in cui si annidano i crocevia dell’esistenza.
Due minuti. Quello che ora scriverà la mia mano è qualcosa di più di una frase, lo so miseramente: nell’eternità intera non succedono tutte le cose che succedono in due fragili minuti umani. (…) Perché due minuti sono fatti di cose così: un treno che emette un lungo fischio, poi un altro più corto, annunciando l’inaspettata puntualità della sua partenza. Un piccione che vola miseramente fra la fuliggine, sotto la volta della stazione, piccione che ora ricordo con meraviglia ma che allora mi parve meschino, un progetto incompiuto di uccello (…) Il fulgore di una moneta o di un tappino di latta, che mi chiamavano dal pavimento del binario: forse era un cerchietto d’unto, uno spregevole tondino di saliva, ma palpitò per un secondo, come una stella. Una pagina lacera, di giornale…
I dettagli dilatati sgranano la realtà come un tessuto che il logorio rende trasparente, ed ecco che il passaggio al surreale è già avvenuto. Ha dunque poco senso, dicevo, distinguere nelle raccolte di Castillo i vari generi, dal momento che ogni elemento di costruzione, dal nudo mattone al pizzo della tendina, può giocare qualsiasi ruolo nell’imprevedibile alchimia del suo edificio.
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