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Il Paradiso degli Orchi
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CLASSICI

Alfredo Ronci

Il blu e il nero. Colori di un'unica solitudine: 'Ferito a morte' di Raffaele La Capria.

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Romanzo di fascinazione ossimorica. Scrive Giorgio Bàrberi Squarotti nell'introduzione all'edizione da noi considerata: Il romanzo di La Capria apparve nel 1961 ed ebbe in quell'anno uno fra i più combattuti Premi Strega, sopravanzando di un solo voto Delitto d'onore di Giovanni Arpino e Ballata levantina di Fausta Cialente.

Verrebbe da dire bei tempi, anche se sprofondare nella nostalgia è azione delittuosa (quegli anni poi, già segnati dalla tentacolare possanza dell'inciucio democristiano): in questo caso però sarebbe solo malinconia per una lingua perduta, per uno sforzo, dei letterati di allora, di superare certi vincoli, non di legittimare le anomalie di un mercato come fanno gli scrittori d'oggi.

Aggiungeva Bàrberi Squarotti: Fu una vittoria indicativa. Ferito a morte rappresentò infatti uno dei testi decisivi del rinnovamento tecnico e tematico della nostra narrativa dopo la definitiva crisi del neorealismo e, conseguentemente, di ogni modo di rappresentazione realista riferibile a modelli ottocenteschi e populisti.

Sì, Ferito a morte fu davvero una sorpresa, ma spesso ingigantito dal fervore della critica nostrana di avvertire l'esigenza di un superamento tout-court della lingua: il romanzo di La Capria, a mio parere, al di là dei meriti linguistici e della struttura monologante, per la quale si è fatto spesso il nome di Joyce, rimane una struggente testimonianza delle 'ferite' del mondo, e in questo caso, delle ferite del protagonista, Massimo De Luca.

Perché si diceva all'inizio romanzo di fascinazione ossimorica? Perché i colori, indicati già nel nostro titolo, sono facilmente accostabili e discosti: una convergenza parallela che determina continui spostamenti sensoriali, fino all'invadenza finale della disillusione.

Il blu (se aggiungessimo una 'e', come fanno spesso gli americani, sarebbe un'extra azzeccato) è quello del mare, vivido protagonista del romanzo e con esso le inevitabili decorazioni... il sole, i riflessi argentei, le onde, il sommesso bisbiglio del mondo. Il nero (avremmo volentieri optato per il grigio, ma la disperazione esistenzialista del protagonista c'ha suggerito un aggravio) è quello della solitudine, della disillusione, di una ricerca ahimé del tempo perduto.

Glauco, il fisicato, Ninì, il fratello di Massimo, Sasà, quello da tutti considerato 'eccezionale' anche se non dotato di pregi particolari, Gaetano (che vede fascisti spuntare da ogni parte e dice che nel Sud siamo predisposti al fascismo, lo pigliamo come il raffreddore), sono personaggi luminosi e nello stesso tempo spenti dal peso degli anni e strazianti metafore di una condizione negativa del mondo.

Il periodo raccontato è quello che va dalla fine degli anni quaranta, alla fine dei cinquanta e la storia è ambientata nei luoghi che poi saranno deputati alla frivolezza: Capri, Ischia, la costa napoletana. Dunque dal superamento dello shock bellico, alle prime avvisaglie di una ricerca di riscatto. Non solo: di una necessità vera e propria di un esordio più spassoso alla vita. E la borghesia napoletana, nonostante ciò, (se si esclude Gaetano, più 'proletario', gli altri chi più chi meno, fanno parte di quel 'mondo') già mostra i termini di una decadenza inesorabile e languida.

Ma su tutti svetta la pena di Massimo, che paradossalmente non sembra avvertita (da lui stesso e dal lettore): una sensazione di inadeguatezza lo porta ad un certo punto a 'fuggire' dai luoghi della sua infanzia e a trovare sistemazione a Roma. Quando ci tornerà troverà cambiate anche le persone, ma cambiamenti di facciata. Anzi, nei comportamenti di alcune persone intuirà una sorta di coazione a ripetere: Ninì, suo fratello, ha sostituito Sasà negli espedienti per fare vita di lusso senza averne le possibilità. E gli altri ingrigiti (anneriti?) nella loro impossibilità a vivere.

Romanzo dunque di struggente malinconia (ha lo stesso effetto di una scena cinematografica al tramonto) e di un carico emozionale difficilmente rintracciabile altrove.

Ma sopravvive ancora in me la sensazione che oltre la ricerca di una via d'uscita ai lacci di una letteratura apodittica, Ferito a morte (titolo di per sé esaustivo) sia soprattutto un libro che non chiude un periodo, semmai lascia in sospeso una suggestione, che è anche una tragica realtà: il significato effettivo della vita.

Permettetemi in aggiunta e per concludere, la citazione di un brano, esempio di una lucidità espressiva senza pari. A pagina 110: Ragazzini scalzi di tutte le misure, neri allegri e denutriti, e le loro occhiate, il bianco degli occhi come spicchi di aglio. Ne vedi uno, ti volti un momento, e allo stesso posto ne trovi due, tre: partenogenesi partenopea.

Quando la letteratura era altro.





L'edizione da noi considerata è:



Raffaele La Capria

Ferito a morte

Bompiani/CDE 1969





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