ATTUALITA'
Stefano Torossi
Il "non finito"
Esiste, come tutti sanno, il “non finito” di Michelangelo, di cui un esempio è la Pietà Rondanini.
L’artista sosteneva che l’immagine vive già nel blocco di marmo, basta estrarla eliminando il superfluo; quindi il non finito è solo una pausa in questo scavo, che si può riprendere in qualsiasi momento, tanto l’opera è lì dentro che aspetta.
Dopo di lui altri hanno approfittato di questa svolta stilistica e hanno cominciato a celare anche loro sotto una rozza crosta di non definitivi colpi di scalpello intenzioni, idee, forse anche la semplice incapacità, appunto, di andare avanti e finire il lavoro.
E poi c’è il “non finito” alla romana che invece non è una tecnica artistica, neanche l’estrinsecazione di un pensiero: è pura e semplice cialtroneria.
Cominciamo da Via degli Acciaioli, quel breve tratto che, scendendo da Ponte Principe Amedeo, collega il Lungotevere con Corso Vittorio. Siamo sull’itinerario dei pellegrini che vanno e vengono da S. Pietro: in pieno Centro Storico insomma, sotto gli occhi di mezzo mondo.
Per allargare la strada furono demolite alcune case, di pregio o no non lo sappiamo. Certo che lasciare quei segni di solai tagliati, quelle impronte di finestre e porte accecate, che una mano d’intonaco avrebbe nascosto con modica spesa, come potremmo chiamarlo se non cialtroneria? E non è di ieri, la faccenda, ma risale a una vita fa.
Ora facciamo un balzo all’estrema periferia, che fino a poco fa era ancora Campagna Romana. Tor Fiscale, un meraviglioso manufatto medievale arrampicato sull’incrocio di due acquedotti, il Claudio e il Marcio.
E qui siamo immersi nell’antichità. Ma non del tutto, perché nell’immediato dopoguerra, lungo gli acquedotti romani, anzi, appoggiate ai loro ruderi, erano nate una serie vergognosa di baracche dove erano finiti a vivere, se quella si poteva chiamare vita, gli sfollati dei bombardamenti.
Bene, un paio di anni fa ci fu una grande festa per celebrare il restauro della torre e degli acquedotti. Le strutture rinforzate, i conci di tufo perfettamente puliti, l’edera e i capperi estirpati, ma, chissà perché, anche qui sono rimaste le pareti imbiancate delle catapecchie abbarbicate ai pilastri. Testimonianza storica di un passato recente? Ne dubitiamo. Storica, poi? Mah! Scommetteremmo invece, anche qui, sulla cialtroneria romana.
Si potrebbe continuare, invece ci fermiamo. Però…
Però permetteteci questa postilla: oltre al “non finito”, a Roma ricorre spesso il “non innaffiato”.
Si tratta di una assoluta mancanza di empatia (leggi attenzione alla sopravvivenza) verso piante e fiori.
In primis da parte del Comune, che le piante, ahinoi, le compra con i nostri soldi, poi le abbandona; a questo, per quanto stupido sia, ci siamo romanamente abituati.
Ma anche da parte dei privati, che le piante le comprano con i loro, le piazzano davanti ai loro negozi, ai loro ristoranti, ai loro laboratori, e poi le lasciano morire piuttosto di dargli mezzo litro d’acqua ogni tanto. E questo, oltre che stupido, ci sembra masochisticamente incomprensibile ma, lo ripetiamo, romanamente abituale.
Piazza Venezia, un marciapiede percorso da ogni turista che metta piede in città e si fermi a dare un’occhiata al Vittoriano. Dai lati della vetrinetta del bar ci salutano i due impiccati di guardia, non più botanicamente riconoscibili, probabilmente deceduti durante l’emergenza virus, e mai sostituiti (ma neanche eliminati, se non altro per salvare la faccia).
L’artista sosteneva che l’immagine vive già nel blocco di marmo, basta estrarla eliminando il superfluo; quindi il non finito è solo una pausa in questo scavo, che si può riprendere in qualsiasi momento, tanto l’opera è lì dentro che aspetta.
Dopo di lui altri hanno approfittato di questa svolta stilistica e hanno cominciato a celare anche loro sotto una rozza crosta di non definitivi colpi di scalpello intenzioni, idee, forse anche la semplice incapacità, appunto, di andare avanti e finire il lavoro.
E poi c’è il “non finito” alla romana che invece non è una tecnica artistica, neanche l’estrinsecazione di un pensiero: è pura e semplice cialtroneria.
Cominciamo da Via degli Acciaioli, quel breve tratto che, scendendo da Ponte Principe Amedeo, collega il Lungotevere con Corso Vittorio. Siamo sull’itinerario dei pellegrini che vanno e vengono da S. Pietro: in pieno Centro Storico insomma, sotto gli occhi di mezzo mondo.
Per allargare la strada furono demolite alcune case, di pregio o no non lo sappiamo. Certo che lasciare quei segni di solai tagliati, quelle impronte di finestre e porte accecate, che una mano d’intonaco avrebbe nascosto con modica spesa, come potremmo chiamarlo se non cialtroneria? E non è di ieri, la faccenda, ma risale a una vita fa.
Ora facciamo un balzo all’estrema periferia, che fino a poco fa era ancora Campagna Romana. Tor Fiscale, un meraviglioso manufatto medievale arrampicato sull’incrocio di due acquedotti, il Claudio e il Marcio.
E qui siamo immersi nell’antichità. Ma non del tutto, perché nell’immediato dopoguerra, lungo gli acquedotti romani, anzi, appoggiate ai loro ruderi, erano nate una serie vergognosa di baracche dove erano finiti a vivere, se quella si poteva chiamare vita, gli sfollati dei bombardamenti.
Bene, un paio di anni fa ci fu una grande festa per celebrare il restauro della torre e degli acquedotti. Le strutture rinforzate, i conci di tufo perfettamente puliti, l’edera e i capperi estirpati, ma, chissà perché, anche qui sono rimaste le pareti imbiancate delle catapecchie abbarbicate ai pilastri. Testimonianza storica di un passato recente? Ne dubitiamo. Storica, poi? Mah! Scommetteremmo invece, anche qui, sulla cialtroneria romana.
Si potrebbe continuare, invece ci fermiamo. Però…
Però permetteteci questa postilla: oltre al “non finito”, a Roma ricorre spesso il “non innaffiato”.
Si tratta di una assoluta mancanza di empatia (leggi attenzione alla sopravvivenza) verso piante e fiori.
In primis da parte del Comune, che le piante, ahinoi, le compra con i nostri soldi, poi le abbandona; a questo, per quanto stupido sia, ci siamo romanamente abituati.
Ma anche da parte dei privati, che le piante le comprano con i loro, le piazzano davanti ai loro negozi, ai loro ristoranti, ai loro laboratori, e poi le lasciano morire piuttosto di dargli mezzo litro d’acqua ogni tanto. E questo, oltre che stupido, ci sembra masochisticamente incomprensibile ma, lo ripetiamo, romanamente abituale.
Piazza Venezia, un marciapiede percorso da ogni turista che metta piede in città e si fermi a dare un’occhiata al Vittoriano. Dai lati della vetrinetta del bar ci salutano i due impiccati di guardia, non più botanicamente riconoscibili, probabilmente deceduti durante l’emergenza virus, e mai sostituiti (ma neanche eliminati, se non altro per salvare la faccia).
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