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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Robert Silverberg

In un altro paese

Delos Digital, Traduzione di Alessantro Rossi, Pag. 128 Euro 15,00
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Di questo delizioso romanzo breve è nota la genesi. A Silverberg era stato chiesto di collaborare a una collana che pubblicava in un unico volume un classico della fantascienza e un seguito scritto da un autore contemporaneo (parliamo del 1989). Nel suo caso il classico era Vintage Season, di Catherine L. Moore e Henry Kuttner (1946). Anziché portare avanti la stessa storia, Silverberg preferì riscriverla da un punto di vista diverso e complementare. L’argomento è presto detto: un gruppo di turisti provenienti dal futuro visita diverse epoche, soffermandosi poi in un momento situato verso la fine del ventesimo secolo, nella fase di massimo fulgore di una città (New York?) e nell’imminenza di una catastrofe che ne sconvolgerà il destino. L’organizzazione che cura quel tipo di viaggi impone regole rigidissime ai clienti: possono mostrarsi e interagire con le persone dell’epoca, ma non interferire in alcun modo con il destino già segnato. Una sorta di filosofia del distacco, basata sull’impossibilità di cambiare il passato, dovrebbe impedire loro di coinvolgersi troppo. Naturalmente le cose non vanno proprio così.
   Ma all’improvviso quelle questioni gli sembravano irreali e astratte. Contava solo ciò che sentiva: quando si voltava a guardare questa donna di un passato così lontano veniva attraversato da uno slancio di contentezza, impazienza, passione.
   Ed ecco che l’elemento fantascientifico va a fondersi con una delicata storia di sentimenti. Non perde però un sottofondo umoristico che scaturisce direttamente dal contrasto fra gli usi e i costumi dei viaggiatori e quelli del passato, là dove gli usi del passato sono più o meno i nostri, mentre quelli dei protagonisti ci appaiono alquanto eccentrici. È molto divertente la meraviglia del protagonista davanti alle nostre cose strane mentre per noi è strano lui, insieme alla sua combriccola di amici.
   Ecco come il protagonista si comporta appena arrivato nel suo albergo del ventesimo secolo.
   …passò un’ora a trasformare le sue stanze in un ambiente più familiare e congeniale. Dalla valigia estrasse moquette, tendaggi e copriletti della sua epoca, tutti frementi di vita e magia, con cui sostituire quelli rigidi, monotoni e morti che lì sembravano preferire. Tirò fuori i tavolinetti a tre gambe (…) Appese un esteticon alla parete opposta alla finestra e lo fece partire, riempiendo la stanza di colori caldi e pulsanti. Sistemò una sfera musicale sul cassettone (…) attivò un piccolo induttore subsonico (…) impostandolo per spaziare su tutto lo spettro degli stati d’animo positivi nell’arco delle ventiquattr’ore…
    A Silverberg la fantasia non manca, anche nei piccoli dettagli. E sul fatto che una valigia possa contenere tutta quella roba, dopo averci fatto sgranare gli occhi si decide a spiegare che la valigia non era altro che un condotto diretto con il suo tempo.
   La storia è raccontata in toni leggeri, anche quando assume risvolti drammatici. È un doppio binario che ben si addice a un protagonista con un piede nel passato e un altro nel suo presente.
   È passato del tempo da quando leggevo con entusiasmo i primi romanzi di Silverberg, ed ero curiosa di capire che cosa mi avesse tanto affascinato. Ora lo so. Nonostante questo sia un romanzo breve e un’opera minore, c’è intatta la grande capacità di chiamare il lettore dentro la storia. Chiamare dentro, non saprei come esprimerlo meglio.

di Giovanna Repetto


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