ATTUALITA'
Stefano Torossi
L'ombra dei padri
Venerdì 7 giugno ’19, Casa del Jazz, Roma. Premio Lelio Luttazzi: tre pianisti e tre cantautrici in finale. Presentazione spumeggiante di Dario Salvatori (è incredibile, passano gli anni ma la spuma di Dario è sempre lì, come le sue giacche, pantaloni, scarpe e coiffure). Certo che anche il vestito della concorrente…
I pianisti in concorso, tutti bravi, per carità, giovanissimi e talmente vogliosi di dimostrarsi, che i loro brani (durata media sui 10’) ci hanno prostrato con le discese e le risalite e le progressioni ardite. Per il resto bella serata.
Un meritato omaggio a papà Lelio. La figlia, Donatella, buona cantante, è un esempio di quando parliamo di ombre dei padri. Basti il titolo del libro che ha recentemente pubblicato: “L’unico papà che ho. Cosa si prova ad avere un padre famoso, appassionato di jazz e assente”. Una dichiarazione.
Altri padri, altri figli: il problema rimane.
Roma, 16 settembre 2010, Auditorium dei Congressi, piccola orchestra d’archi, bel pubblico. Sale sul podio Andrea che attacca a dirigere. Noi siamo in prima fila e lo vediamo bene. La punta della bacchetta trema, ha le spalle contratte, i movimenti rigidi. Suda. Il primo pezzo, breve e spigoloso, passa, Il secondo è più lirico e dolente e lui sembra rilassarsi, ma la schiena è ancora piena di nodi. Avanti così fino all’applauso finale. Andrea ringrazia, cerca con gli occhi papà in sala, lo trova, lo invita a salire, e papà Ennio sale, dirige una propria composizione, già nel cuore del pubblico, più facile delle precedenti; scroscio di applausi, non di circostanza, papà saluta e scende. I due, si sarà capito, sono i Morricone, padre e figlio.
Essere figlio del musicista più famoso del mondo, e fare lo stesso mestiere! Non importa nemmeno sapere chi è il più bravo. E’ una situazione pesante e senza uscita. O meglio, un’uscita di scena (e intendiamo in senso definitivo) a nostro parere esiste, ed è al centro di una teoria che esporremo fra qualche riga.
Rischiosissima la combinazione di artisti nella stessa famiglia, separati da una generazione e talvolta, anche se non sempre, da un abisso di qualità. Abbiamo avuto fra le nostre amicizie più care quella cinquantennale con Bruno Lauzi, che ci ha lasciati da poco. Abbiamo visto nascere, studiare, stupirci suo figlio Maurizio, pieno di talento, buon autore, ottimo pianista, bravo cantante, e per di più bello e simpatico. Amorevolmente covato all’inizio, poi è rimasto intrappolato nell’ombra di suo padre che, anche se piccola, era molto scura. E quando papà è (per usare il termine di prima) uscito di scena, non era più il momento giusto, a Maurizio il sorpasso è sfuggito e si è perso.
Per concludere, chicca storica. Non tutti sanno che nel cimitero protestante di Roma (un giardino incantato vicino alla piramide, che suggeriamo per un incontro romantico-decadente) c’è la tomba di August Goethe, figlio di quel famosissimo padre. Sulla lapide non c’è neanche il suo nome. C’è scritto solo Goethe Filius. Neanche da morto, padrone di avere un’identità!
A volte i genitori sono solo ingombranti, altre volte sono delle vere carogne.
Un eccellente esemplare di questa categoria pare che fosse la buonanima di Salvatore Quasimodo, poeta sommo e premio Nobel. Certo non un simpaticone, e lo si intuisce dalla foto. La notizia la troviamo a pag. 41 di Repubblica del 30 novembre 2015: qui il figlio Alessandro confessa di aver deciso di mettere all’asta la medaglia Nobel di papà Salvatore e di averlo fatto “non per soldi, ma per gelosia”.
Per poi fare il pieno con il racconto di una sfilza di carognate paterne, anche queste da Nobel. Quando il piccolo Alessandro, che aveva undici anni, sentì il padre che diceva alla madre: “Devi scegliere, o me o il bambino”, quindi aborto. Poi le continue minacce a lui, studente, se non lo promuovevano, di mandarlo a fare l’operaio; e per ultima, l’elegante decisione di andare “alla cerimonia di Stoccolma, quella della consegna del Nobel, con la sua amante, lasciando a casa me e mia madre, che invece eravamo stati invitati”.
Eccola la teoria che potrà sembrare spietata, ma a nostro parere è assolutamente realistica. A un certo punto della vita, per non ingobbirsi come un germoglio spuntato sotto una pietra si deve rimanere orfani. E se il decesso del genitore ingombrante non avviene spontaneamente, bisogna procurarlo. Non intendiamo dire che il vecchio deve morire davvero; no, naturalmente. Basta che muoia simbolicamente, professionalmente, che si fermi al pit stop, mentre la nuova generazione passa avanti, cambia marcia e se ne va il più lontano possibile.
Per diventare adulti davvero, e perciò protagonisti della propria vita, personale e professionale, bisogna perdere tutti i sostegni, tutte le possibilità di essere consolati da mammà e raccomandati da papà, insomma, rinunciare alle protezioni contro il mondo cattivo (che naturalmente non è cattivo; è, e basta).
Bisogna essere orfani.
I pianisti in concorso, tutti bravi, per carità, giovanissimi e talmente vogliosi di dimostrarsi, che i loro brani (durata media sui 10’) ci hanno prostrato con le discese e le risalite e le progressioni ardite. Per il resto bella serata.
Un meritato omaggio a papà Lelio. La figlia, Donatella, buona cantante, è un esempio di quando parliamo di ombre dei padri. Basti il titolo del libro che ha recentemente pubblicato: “L’unico papà che ho. Cosa si prova ad avere un padre famoso, appassionato di jazz e assente”. Una dichiarazione.
Altri padri, altri figli: il problema rimane.
Roma, 16 settembre 2010, Auditorium dei Congressi, piccola orchestra d’archi, bel pubblico. Sale sul podio Andrea che attacca a dirigere. Noi siamo in prima fila e lo vediamo bene. La punta della bacchetta trema, ha le spalle contratte, i movimenti rigidi. Suda. Il primo pezzo, breve e spigoloso, passa, Il secondo è più lirico e dolente e lui sembra rilassarsi, ma la schiena è ancora piena di nodi. Avanti così fino all’applauso finale. Andrea ringrazia, cerca con gli occhi papà in sala, lo trova, lo invita a salire, e papà Ennio sale, dirige una propria composizione, già nel cuore del pubblico, più facile delle precedenti; scroscio di applausi, non di circostanza, papà saluta e scende. I due, si sarà capito, sono i Morricone, padre e figlio.
Essere figlio del musicista più famoso del mondo, e fare lo stesso mestiere! Non importa nemmeno sapere chi è il più bravo. E’ una situazione pesante e senza uscita. O meglio, un’uscita di scena (e intendiamo in senso definitivo) a nostro parere esiste, ed è al centro di una teoria che esporremo fra qualche riga.
Rischiosissima la combinazione di artisti nella stessa famiglia, separati da una generazione e talvolta, anche se non sempre, da un abisso di qualità. Abbiamo avuto fra le nostre amicizie più care quella cinquantennale con Bruno Lauzi, che ci ha lasciati da poco. Abbiamo visto nascere, studiare, stupirci suo figlio Maurizio, pieno di talento, buon autore, ottimo pianista, bravo cantante, e per di più bello e simpatico. Amorevolmente covato all’inizio, poi è rimasto intrappolato nell’ombra di suo padre che, anche se piccola, era molto scura. E quando papà è (per usare il termine di prima) uscito di scena, non era più il momento giusto, a Maurizio il sorpasso è sfuggito e si è perso.
Per concludere, chicca storica. Non tutti sanno che nel cimitero protestante di Roma (un giardino incantato vicino alla piramide, che suggeriamo per un incontro romantico-decadente) c’è la tomba di August Goethe, figlio di quel famosissimo padre. Sulla lapide non c’è neanche il suo nome. C’è scritto solo Goethe Filius. Neanche da morto, padrone di avere un’identità!
A volte i genitori sono solo ingombranti, altre volte sono delle vere carogne.
Un eccellente esemplare di questa categoria pare che fosse la buonanima di Salvatore Quasimodo, poeta sommo e premio Nobel. Certo non un simpaticone, e lo si intuisce dalla foto. La notizia la troviamo a pag. 41 di Repubblica del 30 novembre 2015: qui il figlio Alessandro confessa di aver deciso di mettere all’asta la medaglia Nobel di papà Salvatore e di averlo fatto “non per soldi, ma per gelosia”.
Per poi fare il pieno con il racconto di una sfilza di carognate paterne, anche queste da Nobel. Quando il piccolo Alessandro, che aveva undici anni, sentì il padre che diceva alla madre: “Devi scegliere, o me o il bambino”, quindi aborto. Poi le continue minacce a lui, studente, se non lo promuovevano, di mandarlo a fare l’operaio; e per ultima, l’elegante decisione di andare “alla cerimonia di Stoccolma, quella della consegna del Nobel, con la sua amante, lasciando a casa me e mia madre, che invece eravamo stati invitati”.
Eccola la teoria che potrà sembrare spietata, ma a nostro parere è assolutamente realistica. A un certo punto della vita, per non ingobbirsi come un germoglio spuntato sotto una pietra si deve rimanere orfani. E se il decesso del genitore ingombrante non avviene spontaneamente, bisogna procurarlo. Non intendiamo dire che il vecchio deve morire davvero; no, naturalmente. Basta che muoia simbolicamente, professionalmente, che si fermi al pit stop, mentre la nuova generazione passa avanti, cambia marcia e se ne va il più lontano possibile.
Per diventare adulti davvero, e perciò protagonisti della propria vita, personale e professionale, bisogna perdere tutti i sostegni, tutte le possibilità di essere consolati da mammà e raccomandati da papà, insomma, rinunciare alle protezioni contro il mondo cattivo (che naturalmente non è cattivo; è, e basta).
Bisogna essere orfani.
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