RECENSIONI
Philip Dick
Lo stravagante mondo di Mr Fergesson
Fanucci editore, Pag. 240 Euro 17,00
Il motivo fondamentale con cui si avvia il romanzo di Philp Dick, Lo stravagante mondo di Mr Fergesson (traduzione Maurizio Nati, cura di Carlo Pagetti) è quello della colpa. La colpa che avvinghia un'esistenza proprio nel momento in cui potrebbe sperare di farsi più leggera, un sentimento che arriva cupissimo perché vorresti giocarti legittimamente la possibilità di una vita migliore – e non sei sicuro di farcela. "Ecco quello che ti può capitare con gli altri, che ti fanno sentire male quando invece ti dovresti sentire bene" dice il vecchio Fergesson a sé stesso.
Fergesson, una vita da meccanico, il primo passo l'ha fatto. Ha deciso di vendere il lotto di terra affittato per pochi dollari al mesto Al Miller, uomo senz'arte né parte, che vi vende macchine scassate e ferrivecchi. Non un fratello, non un parente, non un amico scelto per affinità elettiva Al, ma solo un uomo con cui Fergesson ha passato molto tempo insieme perché la sua officina era accanto allo sfascio dell'inquilino. Un poveraccio, insomma. Spiritualmente un parassita, almeno a sentire quel che ha da dire la moglie di Fergesson, che con tutte le cautele del caso non si perita di rimproverarlo per l'indulgenza mostrata verso un uomo che non la merita. Che gli ha fatto cambiare umore e maniere negli ultimi tempi. Lui, un uomo che ha legittime aspirazioni da pensionato, di una vita più dignitosa, mentre Al, a trent'anni, non sembra nemmeno mai cresciuto.
Nella Bay Area di San Francisco non riescono a fare pensieri molto più complessi di questi, ciò non toglie che si tratti di sentimenti rispettabili. Il Dick realista, come viene grosso modo definito, cui occorre ascrivere questo romanzo, non scrive per giudicare, semplicemente racconta, non sempre in questo libro in maniera avvincente, un proletariato visto da vicino. In cui la competizione è al ribasso, la lotta è fra poveri, e i neri sono più poveri degli altri. Se questo è il contesto generale, la vicenda dei due personaggi principali non pare avere molte chance di chiudersi felicemente.
La qualità maggiore di questo romanzo scritto alla fine degli anni Cinquanta e pubblicato solo nel 1986 in Inghilterra e pochi anni fa negli Usa, romanzo che, va detto, non è fra i suoi massimi e poco ha da spartire con le opere per cui Dick è noto al pubblico, sta nell'opacità dei personaggi (non deficit di costruzione, ma verità di esistenze "deboli") – la loro stanchezza quasi atavica, la dappocaggine di fondo sobillata da una condizione di marginalità sostanziale, il loro errare maldestro, insignificante fra i cascami di una città che pare ignorarli.
E che alla fine riesce a concedere loro l'illusione di una realtà per vie niente affatto umane: è la macchina, l'automobile a prendere man mano la scena di questo paesaggio sociale grigio, residuale. Le automobili sembrano avere più identità di quanta non riescano a mostrarne loro, con i piccoli affari malriusciti e gli abbozzi goffi di intraprese improbabili. Con il che forse, siamo ancora lontani dagli androidi che sognano pecore elettriche, ma potremmo intravederne le ombre.
di Michele Lupo
Fergesson, una vita da meccanico, il primo passo l'ha fatto. Ha deciso di vendere il lotto di terra affittato per pochi dollari al mesto Al Miller, uomo senz'arte né parte, che vi vende macchine scassate e ferrivecchi. Non un fratello, non un parente, non un amico scelto per affinità elettiva Al, ma solo un uomo con cui Fergesson ha passato molto tempo insieme perché la sua officina era accanto allo sfascio dell'inquilino. Un poveraccio, insomma. Spiritualmente un parassita, almeno a sentire quel che ha da dire la moglie di Fergesson, che con tutte le cautele del caso non si perita di rimproverarlo per l'indulgenza mostrata verso un uomo che non la merita. Che gli ha fatto cambiare umore e maniere negli ultimi tempi. Lui, un uomo che ha legittime aspirazioni da pensionato, di una vita più dignitosa, mentre Al, a trent'anni, non sembra nemmeno mai cresciuto.
Nella Bay Area di San Francisco non riescono a fare pensieri molto più complessi di questi, ciò non toglie che si tratti di sentimenti rispettabili. Il Dick realista, come viene grosso modo definito, cui occorre ascrivere questo romanzo, non scrive per giudicare, semplicemente racconta, non sempre in questo libro in maniera avvincente, un proletariato visto da vicino. In cui la competizione è al ribasso, la lotta è fra poveri, e i neri sono più poveri degli altri. Se questo è il contesto generale, la vicenda dei due personaggi principali non pare avere molte chance di chiudersi felicemente.
La qualità maggiore di questo romanzo scritto alla fine degli anni Cinquanta e pubblicato solo nel 1986 in Inghilterra e pochi anni fa negli Usa, romanzo che, va detto, non è fra i suoi massimi e poco ha da spartire con le opere per cui Dick è noto al pubblico, sta nell'opacità dei personaggi (non deficit di costruzione, ma verità di esistenze "deboli") – la loro stanchezza quasi atavica, la dappocaggine di fondo sobillata da una condizione di marginalità sostanziale, il loro errare maldestro, insignificante fra i cascami di una città che pare ignorarli.
E che alla fine riesce a concedere loro l'illusione di una realtà per vie niente affatto umane: è la macchina, l'automobile a prendere man mano la scena di questo paesaggio sociale grigio, residuale. Le automobili sembrano avere più identità di quanta non riescano a mostrarne loro, con i piccoli affari malriusciti e gli abbozzi goffi di intraprese improbabili. Con il che forse, siamo ancora lontani dagli androidi che sognano pecore elettriche, ma potremmo intravederne le ombre.
di Michele Lupo
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