RECENSIONI
Dan Franck
Mezzanotte a Parigi
Garzanti, Pag. 507 Euro 25,00
Chissà se qualcuno di voi ricorda una famosa scena fantozziana (credo contenuta ne Il secondo tragico Fantozzi) dove il disgraziatissimo ragioniere è invitato, al seguito del solito Grand Ufficial Lup Mannar, ad una cena megagalattica e dove viene presentato, in ordine casuale, ai maggiori imprenditori di vini e liquori (Ramazzotti, Molinari, Gancia, Asti spumante...), rimanendo poi ubriaco solo per aver stretto le mani.
Una cosa simile mi è capitata leggendo Mezzanotte a Parigi: la capitale della cultura mondiale, nel momento più difficile della sua storia, cioè durante l'occupazione nazista, viene vista attraverso gli occhi e le azioni dei più grandi intellettuali del momento (chi francesi di nascita e residenti, chi di 'transito'). Un elenco interminabile di eminenze grigie che fa tremare i polsi e lascia, come lo era Fantozzi nel film, attoniti e un po' storditi.
Franck, da parte sua però, aggiunge un carico: di questa eccellenza ne fa strame. Nel senso che procede, e fa benissimo, ad una netta differenziazione tra chi era un collaborazionista (Drieu la Rochelle o antisemita come Celine), chi vivacchiava in un contesto di sopraffazione e dominio (Jean Giono, Jean Cocteau, Marcel Jouhandeau, Charles Trenet, Edit Piaf, Maurice Chevalier, Mistinguet), chi intuiva l'antifona ma poco 'sovversivo' (Sartre, Simone de Beauvoir... intellettuali piccoli borghese sinceri e laboriosi; funzionari protetti e privi di responsabilità familiari che vivevamo coi soldi guadagnati senza grande fatica...), e quelli con le palle, distinguendo tra quest'ultimi, chi riuscì a sopravvivere (Vercors, l'autore de Il silenzio del mare, Aragon, Eluard, Mauriac) e chi ci lasciò le penne (Max Jacob, Jacques Decour, ... e a tal proposito esiste una bellissima lettera di Jean Paulhan che rinfaccia a Marcel Jouhandeau un 'falso' coraggio e lo invita a stare zitto per il rispetto che si deve ai caduti e a quelli che son fuggiti e non hanno minimamente collaborato con gli invasori nazisti).
Insomma Franck pare scherzare col fuoco (sarebbe un'operazione nostalgica se qualche storico facesse l'istessa cosa anche per la nostra genìa? Ne verrebbero delle belle, a cominciar dal Rossellini nazionale, regista di 'regime' e poi immortale autore di Roma città aperta): ma non si scotta, anzi, la cernita a cui sottopone l'intelligencija transalpina in qualche moda restituisce verità e dignità ad una storia troppo spesso mummificata e scontata.
Si legga bene: qui non si fa del revisionismo. Tutt'altro. Franck conosce i 'limiti' della faccenda, ma sa anche indicarne le origini. Basterebbe leggere le parole di Petain all'arrivo degli occupanti per capire gli sviluppi: Trarremo una lezione dalle battaglie perdute. Da quando abbiamo vinto (nel 1918), la dedizione al piacere ha avuto la meglio sullo spirito di sacrificio. Abbiamo rivendicato più di quanto abbiamo servito. Abbiamo voluto lesinare gli sforzi: oggi ci troviamo di fronte al disastro.
Non erano forse le accuse di lassismo e 'dedizione al piacere' a determinare l'attacco dei seguaci di Hitler alla Repubblica di Weimar?
Sembra che le critiche alla ricerca del piacere non sia prerogativa esclusiva della Chiesa, ma anche delle dittature. Non avevo dubbi: binomio inscindibile.
di Alfredo Ronci
Una cosa simile mi è capitata leggendo Mezzanotte a Parigi: la capitale della cultura mondiale, nel momento più difficile della sua storia, cioè durante l'occupazione nazista, viene vista attraverso gli occhi e le azioni dei più grandi intellettuali del momento (chi francesi di nascita e residenti, chi di 'transito'). Un elenco interminabile di eminenze grigie che fa tremare i polsi e lascia, come lo era Fantozzi nel film, attoniti e un po' storditi.
Franck, da parte sua però, aggiunge un carico: di questa eccellenza ne fa strame. Nel senso che procede, e fa benissimo, ad una netta differenziazione tra chi era un collaborazionista (Drieu la Rochelle o antisemita come Celine), chi vivacchiava in un contesto di sopraffazione e dominio (Jean Giono, Jean Cocteau, Marcel Jouhandeau, Charles Trenet, Edit Piaf, Maurice Chevalier, Mistinguet), chi intuiva l'antifona ma poco 'sovversivo' (Sartre, Simone de Beauvoir... intellettuali piccoli borghese sinceri e laboriosi; funzionari protetti e privi di responsabilità familiari che vivevamo coi soldi guadagnati senza grande fatica...), e quelli con le palle, distinguendo tra quest'ultimi, chi riuscì a sopravvivere (Vercors, l'autore de Il silenzio del mare, Aragon, Eluard, Mauriac) e chi ci lasciò le penne (Max Jacob, Jacques Decour, ... e a tal proposito esiste una bellissima lettera di Jean Paulhan che rinfaccia a Marcel Jouhandeau un 'falso' coraggio e lo invita a stare zitto per il rispetto che si deve ai caduti e a quelli che son fuggiti e non hanno minimamente collaborato con gli invasori nazisti).
Insomma Franck pare scherzare col fuoco (sarebbe un'operazione nostalgica se qualche storico facesse l'istessa cosa anche per la nostra genìa? Ne verrebbero delle belle, a cominciar dal Rossellini nazionale, regista di 'regime' e poi immortale autore di Roma città aperta): ma non si scotta, anzi, la cernita a cui sottopone l'intelligencija transalpina in qualche moda restituisce verità e dignità ad una storia troppo spesso mummificata e scontata.
Si legga bene: qui non si fa del revisionismo. Tutt'altro. Franck conosce i 'limiti' della faccenda, ma sa anche indicarne le origini. Basterebbe leggere le parole di Petain all'arrivo degli occupanti per capire gli sviluppi: Trarremo una lezione dalle battaglie perdute. Da quando abbiamo vinto (nel 1918), la dedizione al piacere ha avuto la meglio sullo spirito di sacrificio. Abbiamo rivendicato più di quanto abbiamo servito. Abbiamo voluto lesinare gli sforzi: oggi ci troviamo di fronte al disastro.
Non erano forse le accuse di lassismo e 'dedizione al piacere' a determinare l'attacco dei seguaci di Hitler alla Repubblica di Weimar?
Sembra che le critiche alla ricerca del piacere non sia prerogativa esclusiva della Chiesa, ma anche delle dittature. Non avevo dubbi: binomio inscindibile.
di Alfredo Ronci
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