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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Luciano Bianciardi

Natale coi fichi

ExCogita, Pag.26 Euro 3,00
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Perché, in questo tempo di visitazione, recensire un libriccino, invece che un bel librazzo-strenna dal congruo numero di pagine, e pesante in proporzione? Magari il bessèllero d'un americano ("l'amàràcàni so' fforti, aho!") o d'un inglese - un Dan Bràu, un Eri Pòtte, un cronache de n'Arnia (consigliabile all'ape Maia). O un "babbo Letale" (cfr. la rivista il Falcone maltese, anno III/12), un corposo giallo-noir di chiappa e (Sam) Spade: dal classico Agata Crìsti (o Còrne Vòlricc) al duo (di spades) Matrone-Tura. D'altra parte, se a Natale escono film di scureggia e rutto libero, si potrà ben santificare le feste con qualche tizio squartato, o occupandoci di chi ha avvelenato l'arcàvolo per beccarsi l'eredità senza nemmeno dirgli grazie.

No: con tutto questo mal d'Iddio, gli Orchi - che hanno il cuore tenero, come le palle di Mozart - si vanno a impacciare con poche pagine d'autobiografia (già romanzesca, siccome ogni scrittore, suo malgrado, è impedito dalla tecnica che è e che usa ad esser mero cronista), di Luciano Bianciardi, classe 1922 - narratore, sceneggiatore, cronacaio del Risorgimento, giornalista su periodici non prestigiosi pur di non scrivere sul corriere di tutte le Montecatini, per un periodo telecritico e scollacciato redattore di pagine cosciò - un suo amico arrivò a sentenziare: "A lui l'ha rovinato Miller". Uno che, per cominciare a capirlo, bisognava guardargli i piedi, come per certi personaggi di Mastronardi. Aveva i piedoni, il Bianciardi grosso, grossetano e all'occorrenza grossier - tanto, alle sue vere e sentite finezze gli altri (le segretariètte secche, le iguane editoriali, gli autorevoli, i giaguari, i maiuscoli, e giù fino ai tafanatori, agli ectoplasmi e agli scrittori da notte) non badavano. E queste appendici che arrivavano un quarto d'ora prima di lui, per colmo di zélla erano rinserrate nelle scarpacce fatte non sulla misura di piedi veri, ma sulla Forma Del Piede, una per tutti e buona per nessuno, da "certi calzolàri hegeliani". Per uno con delle fétte così, l'espressione "ma che c'entra?" non è un modo di dire o una scortesia. E' forma di vita. Non c'entrava, Bianciardi: nelle scarpe, e in tante altre cose. E forse cominciò a intuirlo quando, soldatino dell'esercito di latta e cartone di Sciaboletta e Bombardone, si ritrovò nel gran casino della Puglia del settembre '43 e seguenti. Quando Gambìne (così lo chiamavano in Toscana) aveva dato il benservito al cavaliere (ma non è quello!), e preso l'erba fumaria, facendosi una gran corsa (sull'unica Baionetta vera delle otto milioni starnazzate dal Cerùtti) fino a mettersi sotto la protezione dei nemici, adesso alleati, e diventare, ironia vuole, Redipuglia. Altro giro, altre palle a un soldo. Altri cimiteri.

Bianciardi parlava un po' d'inglese - era un primo della classe, lo sarà fino a quando non sbatte' il grugno su Milano - in un'Italia dove a malapena si sapeva l'italiano. S'aggrega come interprete a una compagnìa inglese, la 508a Nebbiogeni: è la prima volta che si guadagna pane e stima con "la ribaltatura", cioè la traduzione. Non sarà l'ultima. Ed è la prima volta che lui, orgogliosamente provinciale, viene a contatto col doppio "altrove" - linguistico e civile - dell'America global. Ma anche con l'"altrove" ugualmente bifido - sociale e di lingua - dei contadini pugliesi, local, incomprensibili, minacciosi e scuri, neri come il vino che chiamano mieru (p. 22: parola classica, è il latino merum, e relitto d'arretratezza pagana - Cristo non s'è fermato a Eboli, come gli Alleati a Montecassino?). (p. 13) Infine, il giovane allievo ufficiale avvicina un ulteriore doppio - di nome e d'idioma -, tal Pecorari: goriziano - quindi il suo patronimico doveva esser stato tradotto dallo slavo -, e italofono per modo di dire, visto che "quando parlava la nostra lingua, (faceva) nascere il dubbio che stesse a sua volta faticosamente traducendo dal croato". (p. 13) Sono le meraviglie del Croato.

Perciò, se prima i suoi professori alla Normale gli avevano mostrato il problema della giustizia e della libertà in astratto, ora nella disfatta Bianciardi ha l'occasione di provarlo "su strada" - "on the road", si dirà poi. Di vederlo come cosa viva, come spirito del Tempo personificato (come "quel securo" per il professor Hegel) nella misera umanità ricca solo e temporaneamente della maggior miseria di quelli che i fichi da quattro soldi ritengono "impagabil tesor", com'è Gilda per Rigoletto. Un' umanità cafona (nel senso espresso da Silone) dimenticata, estranea, irriducibile ai piccoloborghesi allievi ufficiali come Bianciardi - parti d'un esercito di tre battaglioni di diplomati e laureati, punto di fusione con quell' "esercito più colto del mondo" che erano stati i Mille originari (oltre all'esser armati "alla garibaldina").

E lo scrittore intuisce il problema d'esser liberi e giusti soprattutto incarnato nei G.I. statunitensi, ragazzoni color latte e mirtillo o caffè amaro, tirati su con le proteine delle bistecche e del latte, membri invincibili della Nuova Armada. Quella che un diverso disincantato soldato, Vittorio Sereni - saranno amici, nei tempi di Magra e vita agra - non poteva vedere, prigioniero in Algeria. La quale, assieme a Libia, Tunisia e Marocco, Bianciardi visiterà percorrendone le strade su una Fiat 125 - "on the road again" - ricordandosi spesso di lui. Ricordandosi anche di sé, di come entrambi non avevano vissuto per contingenza e disillusione il nuovo Risorgimento degli italiani, la Resistenza.

Anche l'Italia, dunque, ha avuto la sua "generazione perduta" - quelli sempre o troppo giovani, o troppo vecchi. Troppo intelligenti, o troppo fessi. Troppo amanti della parola, o troppo isolati, in disparte. Troppo in anticipo, e assieme troppo in ritardo (P. Corrìas). Tutti offesi. Tutti sperando che la parola li avrebbe protetti, salvati. Tutti indifesi.

Tale lo sfondo, e la prospettiva. In primo piano, invece, un doppio natale: quello di tutti, celebrato nell'indigente abbondanza possibile all'esercito regnicolo, indi nel minuscolo teatro d'un orfanotrofio. In cui si assiste a una predica e a un più o meno castigato spettacolo - vi partecipano anche due militari, con qualche battuta grassoccia, e uno di loro cade e finisce, come Calvero-Chaplin, nella grancassa dell'orchestrina. Dopodiché, si va a letto, un tantino ciùcchi (solo il vino era a volontà): e un commilitone del Nostro ne approfitta per tenere all' amico una breve conferenza (pp. 22-4) in cui rivisita nientepopòdimenoché la posizione sociale della Sacra Famiglia, dimostrandone l'appartenenza al ceto medio. Era un tempo di rivisitazione, d'altronde (oggi diremmo di revisione, anzi di revisionismo): le bombe delle fortezze volanti stavano infatti rivisitando la storia così come l'avevano raccontata i fascisti negli ultimi vent'anni, nei libri di scuola e nel cartonaccio del cinematografo e delle giornate particolari.

Ma prima di questo natale, rivisto o meno, Bianciardi aveva celebrato il proprio (era nato il quattordici dicembre): natale privato, e assieme civile. Compie ventun anno (avrebbe scritto Ercole Ercoli, una delle figure sul fondale, assieme a B. Croce, a Pippetto e ai frati. E doppio nome al quadrato - nella grafìa e perché fittizio - d'un uomo di celebrata doppiezza). E diviene maggiorenne, "futuro cittadino di uno stato democratico. E forse anche repubblicano (...). Forse addirittura democratico-repubblicano-popolare". (p. 15) Certo: questa rinascita è vista con senno del poi, di chi sa come andrà a finire. Di chi nel frattempo è diventato "cittadino d'uno stato repubblicano, democratico, a economia mista, con aperture sociali, come meglio non si poteva pensare, nell'inverno del '43". (pp. 25-6) Uno stato che tirava le somme di quella "solenne fregatura" del boom, del miracolo economico - che non aveva intaccato i problemi profondi dell'Italia, a cominciare dallo squilibrio nord-sud risoltosi nell'emigrazione interna e nel razzismo dei cartelli "vietato l'ingresso ai meridionali", dal malcostume (quando non prassi criminale) politico, dalla democrazia bloccata, dalla scuola fabbrica di deficienti. Quei problemi, li aveva solo seppelliti in un benessere già allora (il libretto di cui parliamo è datato 1965) d'incerto futuro. Prosperità che, se aveva avuto la benefica funzione d'attenuare o risolvere la millenaria indigenza degli strati sociali meno protetti, era pure la responsabile d'un'atrofia delle coscienze, segno manifesto del quale oggi sono la degenerazione linguistica del neoitaliano (cfr. Fabio Nardini, La povera (neo)lingua italiana, Malatempora), e quella umana del neoproletariato (vedi questo titolo di Labranca per Castelvecchi). Sentite aria di Pasolini? Certo: il che vuol dire che, pur amante della solitudine, il poeta non era solo - e non era il solo - a vedere e a capire il senso di morte (dead end è in inglese il vicolo cieco) che l'insperata vitalità del Paese, la sua rinascita economica, il boom persino nelle nascite, celava e forse preparava. Difatti, lui morì, come scrisse di Guido, "per mano fraterna nemica". Pino Pascali, per l'ottusità del caso. E Bianciardi volendolo - come Piero Manzoni, come Lo Savio. Come, due generazioni dopo, Andrea Pazienza. E tanti altri. In quella che fu detta, in epoca diversa e da chi sopravvisse, "una pallida giostra di poeti suicidi".

Buon Natale.



di Marco Lanzòl


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Figurarsi, aggiungiamo noi, se vivesse in questi tempi di tonitruante nullità, di vuoto pneumatico come direbbe Verdone.

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