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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Silvio Stano

Tentato omicidio

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A mio padre piaceva la pasta, a mia madre il minestrone, per questo alla fine vidi la luce nel millenovecentosessantacinque. Che detto così può sembra un anacoluto cercato col lanternino. Invece è la verità.
Si deve all’ennesimo rifiuto di un minestrone ricchissimo di verdure e all’incazzatura successiva lo stato furibondo di mio padre che, in preda ad una smania di oltraggiare l’intero calendario dei santi, si trasferì in camera da letto senza nemmeno togliersi le scarpe.
Mia madre fu comprensiva come non mai, confessò che s’era industriata col minestrone perché aveva delle verdure da cuocere altrimenti le avrebbe buttate nel secchio dell’immondizia e che le sembrava brutto nei riguardi della Ines che le aveva regalato un cespo di bieta in realtà già piuttosto ‘bollito’ e un mazzetto di asparagi che il marito aveva colto con tanto amore nel campo adiacente la scuola.
-       Mi vuoi sempre bene?
Mio padre non le aveva risposto, la prese per la gonna, la trascinò sul letto, la stese in modo da averla sotto, le sfilò in men che non si dica le mutande, cacciò fuori il suo attrezzo e la scopò con furia, lasciandola urlare come un’ossessa quando lui aveva già riposto nella teca il suo prezioso strumento.
Nessuno dei due s’accorse della presenza di mio fratello, che aveva sentito prima le bestemmie per il minestrone e poi successivamente un forte cigolio del letto e del chiasso che aveva scambiato per un abbaiar di cani che se la danno di santa ragione.
Chissà se successivamente, in base anche alle ipotesi freudiane sulla scena primaria, mio fratello si rese conto dell’importanza dell’accaduto, ma la sua reazione al fatto, in quel momento, si limitò alla chiusura della porta della stanza da letto dei nostri (in verità suoi, io ancora ero là da venire, ma la ‘scena primaria’ determinò poi l’evento), che dava sulla cucina, e ad un accenno di corsa che lo portò, quasi con un sol balzo, ma diciamo tre, a tuffarsi sul suo letto e a rifugiarsi sotto le lenzuola. Pure senza cena: perché mio fratello, come mio padre, detestava il minestrone.
Credo dunque che all’origine del tentato omicidio nei miei confronti, proprio nel giorno del compimento del mio settimo anno di vita, ci fosse un’idiosincrasia alle verdure ed un’accentuata condivisione di vedute tra mio fratello e mio padre. Fratello che aveva già compiuto quindici anni e sapeva peraltro andare molto bene in bicicletta.
Dopo aver mangiato la torta – all’inglese diceva mia madre, e vai a capire perché, visto che all’interno di essa c’era solo uno strato di crema fatta col limone e un’abbondante annaffiatura di alchermes il cui sapore fruttato copriva le magagne di una povertà di ingredienti – mio fratello disse ai miei che voleva portarmi al lago della pesca. Una sorta di pozza putrida e melmosa che due industriosi cugini abruzzesi, ormai da tempo stabiliti e residenti a C., s’erano inventati per dar l’occasione ai maschi del posto di distrarsi e stare lontano dalle mogli che si sa, e da sempre, sono solo buone per i loro capricci.
-       E’ pericoloso – disse mio padre.
-       Pericoloso per chi è stupido, non per me, e poi anche a caderci dentro non affoghi, a malapena il centro sfiora i due metri d’acqua.
-       E ti pare poco? E poi tu che ne sai? – chiese mia madre.
-       Noi tutti lo sappiamo.
-       Noi chi? – Chiesi per non sembrar da meno.
-       Noi e basta.
   Il ‘noi’ poteva essere un’entità astratta, un riassunto piuttosto svogliato delle sue amicizie o un’aggregazione piuttosto parziale dei suoi desideri anche se mio fratello, diciamocelo subito, non brillava di spunti fantasiosi. Un po’ tardo, se ci si può permettere d’interpretare l’intelligenza con strumenti a tempo.
I miei decisero che fidarsi del figlio più grande, ormai quindicenne, fosse più che una necessità, un dovere, e dopo alcune ordinarie raccomandazioni acconsentirono alla passeggiata sul lago che, per uno dei due, rischiò di diventare passeggiata nel lago.
Quella pozza d’acqua che in paese si ostinavano a chiamare lago della pesca, era circondata da una duplice cintura. La prima era di breccia biancastra, che in alcune ore del giorno, soprattutto al tramonto, diventava gialla e se ci si camminava sopra faceva cric crac croc come se si stesse massacrando un esercito di rane; la seconda era di erba che nasceva spontanea, fatta di cespi diseguali ma che ad uno sguardo lontano e anche distratto poteva regalare un colpo d’occhio più omogeneo.
La lunghezza dello specchio d’acqua era di una sessantina di metri e la larghezza di una quarantina, insomma un rettangolo piuttosto irregolare che faceva la felicità di quattro pescatori della domenica annoiati e distratti. E lontani dalle mogli, perché si sa… ed eccetera eccetera.
-       Vieni qua che ci togliamo i vestiti – disse mio fratello.
-       Vuoi fare il bagno?
-       Certo, altrimenti che siamo venuti a fare.
-       Pensavo fossimo venuti per vedere i pescatori pescare.
-       Sai che palle. Dai su, togliti pantaloni e maglia.
 Non avevo nessuna intenzione di togliermi i vestiti e poi mi vergognavo, anche se la differenza a stare in mutande di fronte a mio fratello la sera prima di andare a letto o farlo davanti ad una specie di lercia palude non è che fosse così vistosa.
Guardai di nuovo il lago, o quello che poteva essere: di un colore davvero indefinito che a seconda del vento e quindi del leggero ondeggiare della superficie dell’acqua poteva ricordare la risciacquatura della verdura quando mamma puliva la cicoria dalla terra, o la gradazione del mosto che mio padre mi permetteva di pestare coi piedi nudi quando voleva soddisfare un mio capriccio bucolico.
Mio fratello aveva fatto in fretta: era quasi nudo. Lo osservai bene. Era già bello, con una regolarità del corpo che presagiva sviluppi interessanti: gli inguini segnati da linee trasversali sembravano invitare a guardare là, dove in genere lo sguardo poggia, sia con malizia che con assoluta riservatezza
-       Beh che fai? Non ti togli i vestiti?
-       E se non volessi?
-       Mica sto qui a perdere tempo…
-       Ma i pescatori non diranno nulla?
-       Cosa devono dire?
-       Disturbiamo i pesci.
-       Non c’è scritto da nessuna parte che questo è un lago di pesca. E’ solo una pozza d’acqua dove farsi anche il bagno.
Dunque mio fratello conveniva con me: quello non era un lago, ma una pozza d’acqua marrone che però non invitava a tuffarsi. Ma non mi convinceva l’idea che fosse per tutti: se i pescatori prendevano pesci significava che qualcuno, sospetto i cugini abruzzesi, ce li buttava, vai a sapere con quale modalità, perché dal cielo certo non piovevano e scoprii più tardi che non avrebbero potuto riprodursi automaticamente se non per intervento divino o per un lungo, interminabile, processo evolutivo. Dunque temevo doppio: il contatto con l’acqua sporca Allora che fai?
Mio fratello cominciava ad innervosirsi: mi tolsi i pantaloni malavoglia e gettai la maglietta sopra un sasso per evitare che prendesse polvere e si bagnasse. Lo sguardo mi andò oltre, diciamo una ventina di metri: un uomo, con la canna ancora in acqua, s’era tolto il cappello e abbandonando la sua posizione statica guardava lo spettacolo di due pischelli in mutande e in procinto di lordarsi.
-       Vieni, andiamo al largo – disse mio fratello.
-       Largo? Cos’è ‘sto largo?
-       Dove l’acqua è più profonda.
-       Ma io non so nuotare.
-       Ci penso io, tu stai accanto a me.
-       Ma non posso stare accanto a te quando non tocco più.
Mio fratello sembrava sfinito, scuoteva più volte la testa, ma non arrestava la sua marcia silenziosa e costante verso il centro della pozza. All’improvviso mi allungò un braccio.
-       Prendi la mano.
-       Ho paura.
-       Ci sono qui io.
-       No, io mi fermo.
-   Non ci provare.
-       Che vuol dire non ci provare?
-       Devi seguirmi!
-       Nemmeno per idea…
-       Non ti conviene…
Era una minaccia bella e buona. Mio fratello aveva una faccia che avrei ricordato per sempre: ma il ghigno di un ragazzino di quindici anni può davvero essere pericoloso?
In quel caso lo fu, perché dopo aver tentato inutilmente di riprendere la riva, mio fratello mi attirò verso di sé e completò l’opera, una volta preso il benedetto largo, premendo col palmo della mano sulla mia testa cercando di affogarmi.
Faceva forza con regolarità, senza grossi strattoni e la costanza del gesto impediva qualsiasi mio tentativo di emergere. I miei occhi erano chiusi: sapevo che aprendoli non avrei visto nulla, ma anche se avessi visto qualcosa temevo di non comprendere una realtà che cominciavo ad avvertire aliena. Ma davvero mio fratello stava tentando di affogarmi? Avevo già il respiro a pezzi quando una voce decisa e maschile, che io riuscii ad ascoltare ovattata, gli chiese cosa stesse facendo.
-       Mio fratello non sa nuotare – lo sentii dire nonostante il peso ormai soffocante dell’acqua.
-       E lo aiuti affogandolo?
-       Ma che dice, signoreee!
Riuscii ad emergere perché mio fratello aveva lasciato la presa: avevo in bocca un terribile sapore di terra e due lunghe stalagmiti che uscivano dal mio naso.
-       Fammi un po’ vedere? – L’uomo prese con la mano il mento di mio fratello e girandolo da una parte e dall’altra cominciò a bofonchiare – Mi pare di conoscerti… non sei forse figlio di?
-       No.
-       Come no? Tuo padre non è quello che abita nell’ultima casa prima della ferrovia?
-       No.
-       E invece sì. E gli dirò che hai provato ad affogare ‘sto povero ragazzino.
-       Cosa?
-       Hai ancora il coraggio di mentire?
-       Dai – disse mio fratello fulminandomi con un’occhiata – è vero come dice il signore che volevo affogarti? – E buttò là una risata sghemba che mai avrei pensato potesse uscire dalla sua bocca.
Respiravo ancora a fatica e sentivo i capelli impastati da una sorta di fanghiglia che come nei film di fantascienza non sarei mai più riuscito a strappar via perché ormai parte della mia coscienza già indotta.
-       Mio… fratello… ha modi un po’… duri… per costringermi a… stare… a galla.
-       Veramente non ti teneva a galla, ma ti premeva perché restassi in acqua.
-   Sì in apnea.  
-   E nel dirlo guardai mio fratello e scoppiai a piangere. Pensavo ai miei genitori e al fatto che mai avrei potuto confessar loro che aveva tentato di uccidermi. Se lo avessi detto me lo avrebbero allontanato e io non lo avrei sopportato.
E tra le lacrime aggiunsi…
-       E’ un gran cazzone, ma ha stile.







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