RECENSIONI
Robert Louis Stevenson
Un tetto per la notte
Ibis, A cura di Paolo Morelli, Pag. 64 Euro 7,00
Una curiosità, una chicca scovata per caso in libreria, questo racconto del 1877, in cui Stevenson si lascia accendere la fantasia dal poeta maledetto François Villon. Non è la prima volta che questo personaggio del XV secolo esercita il suo fascino oscuro. Anche il nostro Fabrizio De Andrè ne ha tratto spunto per i suoi brani ispirati al mondo medioevale. Quando si ascolta Tutti morimmo a stento non si può fare a meno di ricordare la Ballade des pendues in cui Villon parla con la voce degli ultimi, dei più disprezzati. Ne sapeva qualcosa, lui che era stato più volte prossimo alla forca a causa di una vita sregolata a cui non erano estranei il furto e perfino l’omicidio. Con questa novella Stevenson si cala in un episodio oscuro e cruento della sua esistenza.
…Mentre gli passava in testa questo tipo di idee era andato a cercarsi, quasi automaticamente, il borsellino. Di botto gli è venuto a mancare il cuore, s’è sentito come una sfilza di squame gelide salirgli su per il retro delle gambe e una mazzata, pure questa fredda, arrivargli in testa. Era rimasto di sasso un momento, poi s’è tastato ancora febbrilmente, alla fine gli è piombata addosso la certezza della perdita e in un attimo s’è ritrovato fradicio di sudore.
Così l’Autore arriva a immedesimarsi nel personaggio entrando nelle pieghe intime della sua psiche. In un tono colloquiale come di chi racconti fra amici, inanella parole e fatti, dialoghi minimalisti e descrizioni di sordidi ambienti, in una Parigi illividita dal gelo. La cronica necessità di denaro, la ricerca di un rifugio per la notte, i futili motivi che senza preavviso conducono a conseguenze irreparabili, danno l’immagine di una vita sciagurata, in cui il genio e il talento non bastano per evitare i guai.
Villon ce l’aveva con la sorte maledetta, almeno nevicasse ancora!, invece ora, ovunque si fosse diretto avrebbe lasciato tracce evidenti dietro di sé (…) quel filo lo avrebbe tessuto coi propri piedi che avanzavano a fatica, era quella la fune che lo legava al delitto e l’avrebbe appeso alla forca…
Libriccino piccolo ma intenso, dove luci e ombre si alternano in una miserevole epopea fra bettole sgangherate e androni oscuri, con il conforto del vino e di compagnie male assortite pronte a condividere risa sguaiate, partite a carte e colpi di pugnale senza soluzione di continuità. E mentre impreca, ruba e fugge, il poeta non smette di pensare alla ballata che va componendo dentro di sé, tormentato dal tarlo di una creatività che non gli dà tregua ma che poco giova alla sua vita quotidiana. Genio e sregolatezza, come si suol dire, che sembrano impossibilitati a prender vie separate. Nel fascino di questo dualismo, nella curiosità per questa commistione di opposti, viene spontaneo ravvisare i prodromi di un percorso che porterà Stevenson alla creazione del celeberrimo Dottor Jackill.
di Giovanna Repetto
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