RACCONTI
Giovanna Repetto
Chernobyl

Era il 26 aprile 1986. Mio figlio stava per compiere due anni. Frequentava il nido "Pollicino", nella periferia sud di Roma. Era tenero, indifeso e inconsapevole.
All'inizio sembrava una cosa lontana, poi si seppe che la nube radioattiva stava arrivando. Il 30 aprile toccò l'Italia. Tutti i ricordi di quel periodo ruotano intorno al bambino. Illatte era la base della sua alimentazione. Guardava ancora con diffidenza gli altri cibi. Il latte era ciò che lo gratificava e lo rassicurava, e latte era stata la sua prima parola. Eppure il latte, quello fresco, di mucca, era diventato veleno. Giravo trafelata per i negozi a cercare il latte a lunga conservazione, l'unico che si poteva consumare tranquillamente, perché non contaminato. Presto cominciò a scarseggiare. Nei supermercati spiccavano gli scaffali semivuoti, e si improvvisavano corse di carrelli, spinti da madri che si guardavano in cagnesco, nel tentativo di raggiungere le ultime confezioni. Si sospettava, e a ragione, che molti ne facessero incetta per garantirsi delle scorte.
In quel periodo era stata rapidamente rivista la scala dei valori della genuinità. I negozianti giuravano che i loro polli non erano ruspanti, bensì nutriti al chiuso con mangimi artificiali. I cibi surgelati, tanto più se prossimi alla scadenza, avevano il primato sui cibi freschi. Si invitavano a cena gli amici più cari, per condividere della verdura avvizzita dimenticata in fondo ai frigoriferi, o per gustare insieme scatolame d'annata.
A maggio il tempo era stupendo: non ricordo un altro maggio così bello. Si stava chiusi in casa, come ci veniva consigliato, e durante gli spostamenti si tenevano sigillati i finestrini dell'auto. Andando al lavoro guardavo attraverso i vetri gli alberi e i prati. La natura mi appariva lussureggiante come non mai, e quell'aria a cui non potevo esporre il viso doveva essere così tiepida e profumata da dare il capogiro. Il rosseggiare dei papaveri mi struggeva fino alle lacrime.
I bambini, soprattutto i bambini, dovevano essere protetti e tenuti al chiuso. In quello splendido maggio si trattava di una misura necessaria e crudele.
Uno di quei giorni mi presentai al nido al solito orario per riprendere il bambino. All'interno dell'edificio la giovane assistente accolse me ed altre mamme dando notizie sullo svolgimento della giornata. "Oggi abbiamo fatto una bella passeggiata - spiegò allegramente, guardando i bambini come a ricevere conferma. - Abbiamo camminato lungo il sentiero e abbiamo raccolto tanti fiorellini."
La fissammo inorridite. Si affrettò a rassicurarci con un sorriso di scusa: "Naturalmente abbiamo fatto finta. Si è svolto tutto al chiuso, nei corridoi."
All'inizio sembrava una cosa lontana, poi si seppe che la nube radioattiva stava arrivando. Il 30 aprile toccò l'Italia. Tutti i ricordi di quel periodo ruotano intorno al bambino. Illatte era la base della sua alimentazione. Guardava ancora con diffidenza gli altri cibi. Il latte era ciò che lo gratificava e lo rassicurava, e latte era stata la sua prima parola. Eppure il latte, quello fresco, di mucca, era diventato veleno. Giravo trafelata per i negozi a cercare il latte a lunga conservazione, l'unico che si poteva consumare tranquillamente, perché non contaminato. Presto cominciò a scarseggiare. Nei supermercati spiccavano gli scaffali semivuoti, e si improvvisavano corse di carrelli, spinti da madri che si guardavano in cagnesco, nel tentativo di raggiungere le ultime confezioni. Si sospettava, e a ragione, che molti ne facessero incetta per garantirsi delle scorte.
In quel periodo era stata rapidamente rivista la scala dei valori della genuinità. I negozianti giuravano che i loro polli non erano ruspanti, bensì nutriti al chiuso con mangimi artificiali. I cibi surgelati, tanto più se prossimi alla scadenza, avevano il primato sui cibi freschi. Si invitavano a cena gli amici più cari, per condividere della verdura avvizzita dimenticata in fondo ai frigoriferi, o per gustare insieme scatolame d'annata.
A maggio il tempo era stupendo: non ricordo un altro maggio così bello. Si stava chiusi in casa, come ci veniva consigliato, e durante gli spostamenti si tenevano sigillati i finestrini dell'auto. Andando al lavoro guardavo attraverso i vetri gli alberi e i prati. La natura mi appariva lussureggiante come non mai, e quell'aria a cui non potevo esporre il viso doveva essere così tiepida e profumata da dare il capogiro. Il rosseggiare dei papaveri mi struggeva fino alle lacrime.
I bambini, soprattutto i bambini, dovevano essere protetti e tenuti al chiuso. In quello splendido maggio si trattava di una misura necessaria e crudele.
Uno di quei giorni mi presentai al nido al solito orario per riprendere il bambino. All'interno dell'edificio la giovane assistente accolse me ed altre mamme dando notizie sullo svolgimento della giornata. "Oggi abbiamo fatto una bella passeggiata - spiegò allegramente, guardando i bambini come a ricevere conferma. - Abbiamo camminato lungo il sentiero e abbiamo raccolto tanti fiorellini."
La fissammo inorridite. Si affrettò a rassicurarci con un sorriso di scusa: "Naturalmente abbiamo fatto finta. Si è svolto tutto al chiuso, nei corridoi."
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