RECENSIONI
Nazim Hikmet
Gran bella cosa è vivere, miei cari
Mondadori, Pag. 254 Euro 19,50
Dice il curatore alla fine del libro: E da parte nostra, sulla scorta del percorso retrospettivo e biunivoco compiuto lungo e dentro la creazione hikmetiana offerto dal presente, movimentato racconto, proiettiamo in prospettiva editoriale le nuove edizioni delle opere di Nazim Hikmet.
E noi ce lo auguriamo. Personalmente ho conosciuto il poeta turco alla fine degli anni settanta, in piena epoca tumultuosa e grazie ai suggerimenti di una cara persona che mi fu anche maestro di yoga.
Ma mentre quest'ultimo batteva il pugno (e lo alzava!) nel rivendicare l'assoluta importanza politica ed ideologica dei versi di Hikmet, il sottoscritto, forse già convinto dell'illiberalità di certe dottrine, se ne andava a spulciare le poesie più melanconiche e sentimentali: all'inno dedicato al corpo di Lenin di gran misura preferiva l'ode dedicata al figlio (Mehmet, piccolo mio, me ne vado. Sono calmo. La vita che si disperde in me si ritroverà in te, per lungo tempo.)
Sorpreso dunque di questa iniziativa editoriale - di questo romanzo, pubblicato nel 1962, la cui gestazione pare abbia preso molti degli ultimi anni di esilio del poeta e dove si respira l'aria delle sue poesie e della materia così schizofrenicamente divisa (la divisione così netta è sempre stata mia, e concedetemi questo appunto!) - ho affrontato la lettura col dovuto rispetto e con una sorta di struggente apprensione. Vi ho ritrovato tutto (persino, e lo confesso ahimé, un pizzico di noia per la scansione etnografica dell'operazione... ma è un prezzo che si deve pagare).
Costruito in modo egregio e differenziato (un po'come per i romanzi di Jaume Cabré, improvvisi scatti temporali e rapidissimi spostamenti dal punto di vista della voce narrante) racconta le vicende di un gruppo di amici 'presi' nella logica del tempo (fine anni venti ed anni trenta) e in quella della battaglia politica. Ma mentre Ahmet (l'alter ego di Hikmet), Ismail, Ziya e Kerim subiscono la persecuzione del regime turco contro il diffondersi della dottrina comunista (gli ultimi tre saranno arrestati e torturati e Kerim morirà), Anuska, la ragazza di Ahmet, pur dedicando il suo tempo e le sue forze all'azione politica, sogna tutt'altro, una sistemazione che agli occhi del ragazzo sembra la materializzazione più evidente dell'imborghesimento delle masse: una bella casetta, con giardino (e l'uomo da amare).
La narrazione, come si diceva prima a scatti, mette il turbo nell'ultima parte, quando la violenza della repressione di stato turca si contrappone, nella cadenza temporale, alle speranze dei giovani sopravvissuti ad essa.
Si è suggerito, di questa prova di Hikmet, una rimessa in gioco di se stesso: mi sembra più un discorso coerentissimo con un pizzico di dolorosa preveggenza. Come anticipato, il libro uscì nel 1962, Hikmet morirà un anno dopo, sempre in esilio a Mosca.
Coerente anche nel titolo: dove, nonostante le lacrime per la distanza e le violenze, preferisce il poeta la vita e gli affetti.
di Alfredo Ronci
E noi ce lo auguriamo. Personalmente ho conosciuto il poeta turco alla fine degli anni settanta, in piena epoca tumultuosa e grazie ai suggerimenti di una cara persona che mi fu anche maestro di yoga.
Ma mentre quest'ultimo batteva il pugno (e lo alzava!) nel rivendicare l'assoluta importanza politica ed ideologica dei versi di Hikmet, il sottoscritto, forse già convinto dell'illiberalità di certe dottrine, se ne andava a spulciare le poesie più melanconiche e sentimentali: all'inno dedicato al corpo di Lenin di gran misura preferiva l'ode dedicata al figlio (Mehmet, piccolo mio, me ne vado. Sono calmo. La vita che si disperde in me si ritroverà in te, per lungo tempo.)
Sorpreso dunque di questa iniziativa editoriale - di questo romanzo, pubblicato nel 1962, la cui gestazione pare abbia preso molti degli ultimi anni di esilio del poeta e dove si respira l'aria delle sue poesie e della materia così schizofrenicamente divisa (la divisione così netta è sempre stata mia, e concedetemi questo appunto!) - ho affrontato la lettura col dovuto rispetto e con una sorta di struggente apprensione. Vi ho ritrovato tutto (persino, e lo confesso ahimé, un pizzico di noia per la scansione etnografica dell'operazione... ma è un prezzo che si deve pagare).
Costruito in modo egregio e differenziato (un po'come per i romanzi di Jaume Cabré, improvvisi scatti temporali e rapidissimi spostamenti dal punto di vista della voce narrante) racconta le vicende di un gruppo di amici 'presi' nella logica del tempo (fine anni venti ed anni trenta) e in quella della battaglia politica. Ma mentre Ahmet (l'alter ego di Hikmet), Ismail, Ziya e Kerim subiscono la persecuzione del regime turco contro il diffondersi della dottrina comunista (gli ultimi tre saranno arrestati e torturati e Kerim morirà), Anuska, la ragazza di Ahmet, pur dedicando il suo tempo e le sue forze all'azione politica, sogna tutt'altro, una sistemazione che agli occhi del ragazzo sembra la materializzazione più evidente dell'imborghesimento delle masse: una bella casetta, con giardino (e l'uomo da amare).
La narrazione, come si diceva prima a scatti, mette il turbo nell'ultima parte, quando la violenza della repressione di stato turca si contrappone, nella cadenza temporale, alle speranze dei giovani sopravvissuti ad essa.
Si è suggerito, di questa prova di Hikmet, una rimessa in gioco di se stesso: mi sembra più un discorso coerentissimo con un pizzico di dolorosa preveggenza. Come anticipato, il libro uscì nel 1962, Hikmet morirà un anno dopo, sempre in esilio a Mosca.
Coerente anche nel titolo: dove, nonostante le lacrime per la distanza e le violenze, preferisce il poeta la vita e gli affetti.
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