ATTUALITA'
Alfredo Ronci
Il vaffanculismo e la noia mortale

Leggo su Trovaroma di qualche settimana fa: Scrivere dal vivo, in diretta, un romanzo giallo o noir o un romanzo fantasy insieme ad uno scrittore professionista. E' questo l'obiettivo del corso di scrittura-spettacolo. Un'occasione per imparare le tecniche della scrittura grazie a Massimo Mongai che creerà, insieme al pubblico in sala, l'intreccio di un romanzo giallo, suggerendo consigli e trucchi del mestiere.
Ora sorgono spontanee e varie considerazioni ed una precisazione. La precisazione è: chi è Massimo Mongai? Per i non addetti è uno scrittore decente di fantascienza e uno piuttosto noioso e allappacervello di noir (la sua serie dedicata all'investigatore etiope Ras Tafari per le edizioni Robin è una delle cose più soporifere che si possano leggere).
Le considerazioni partono da un ricordo: negli anni ottanta andarono molto di moda le scuole di taglio (per barbieri, non per sarti); le hairy schools fiorirono meglio che le margherite nei campetti di calcio delle periferie, con l'unico risultato di vedere una massa informe di uomini e donne andare in giro coi capelli tagliati allo stesso modo. Un alienante tricotico e cotonato mondo di cloni imbellettati.
Per fortuna la moda passò. Ma purtroppo tutto il male vien per nuocere (o per suocere, vedete voi): negli anni novanta fiorirono altre scuole, quelle di scrittura creativa (è evidente, nel momento in cui i termini "scuola" e "creatività" vengono associati, si crea immediatamente una contraddizione in termini, potremmo addirittura parlare di anfibologia, se la locuzione non implicasse un'ambiguità o una duplice interpretazione che in questo caso, proprio perché è evidente il senso da dare al tutto, non ha). Ricordo ancora con particolare pathos quella di Giulio Mozzi, a cavallo tra il 1999 e il 2000, che con vero spirito imprenditorial-consumistico proponeva una SCRITTURA CREATIVA IN VACANZA ad Ischia (sic!) o quella ancor più suggestiva del magister vitae Roberto Cotroneo che dalla città di Otranto si tenterà di scrivere racconti che prendano linfa creativa (aridaje) dalle vie, dalle suggestioni, dalla luce abbagliante della città in cui ci troviamo. Non dimenticando però di suggerire agli improvvidi frequentatori di passare prima in cassa e sborsare soldi.
Ora siamo passati alla scrittura-spettacolo grazie al noiosissimo Mongai. E immagino cosa possa succedere durante incontri del genere: tutti a suggerire idee, alzando la mano, salvo poi scambiare qualche impellente necessità fisiologica in un'imbeccata "geniale".
Ma alla recentissima Fiera della piccola e media editoria svoltasi a Roma le cose offerte non erano poi così diverse. Tra sbadigli squassanti e borborigmi incomprensibili dei giubilanti editor (quando esistono!) delle innumerevoli case editrici presenti che hanno, nel proprio catalogo, i migliori scrittori esistenti sul suolo nazionale o quanto meno le migliori promesse, curiosamente ho avvertito fra questi stessi addetti ai lavori e tra le maestranze una certa resistenza ideologica alle sfanculate grillesche (non che io sia paladino del Grillo) e alle grida di dolore che s'alzano da più parti.
Cos'è l'editoria nostrana, un'isola felice, l'eden pacificato che respinge gli attacchi di barbari contestatori?
Goffredo Fofi, presentando un'antologia di "inchiestatori" (come li ha definiti lui) per i tipi della Minimum Fax ha ribadito il suo no deciso agli stentorei e pericolosissimi proclami di una contropolitica (anti?) da spettacolo e qualunquista.
Dario Franceschini (sì quello dell'ex Margherita) ha ribadito la necessità di forme nuove di comunicazioni (quali, mi chiedo, quelle per le quali è improponibile risolvere l'annoso conflitto di interesse perché c'è in ballo l'inciucio nazionalpopolare per la nuova riforma elettorale? O quelle di una classe politica che a mala pena sa cos'è la Rete?).
L'immarciscibile Nanni Balestrini invece, fiducioso delle sorti progressiste e del sol dell'avvenire, discettava di narrativa digitale (d'altronde come può uno che del nuovo e delle neoavanguardie ha fatto lo scopo principale della propria esistenza trovarsi impreparato rispetto alle forme più stringenti della narrativa ultima?).
Eppure non mi convinco di questa difesa ad oltranza delle cittadelle di cultura di fronte al vaffanculismo di protesta, sì populista per carità, sì eccessivo in certe manifestazioni, ma lungi dall'essere prodromo di scatenamenti simil-fascisti (s'è detto anche questo).
Questa mostra dell'editoria è figlia del più recente veltronismo: non reazionario, ma di costituzione neodemocristiana, dove gli estremi convivono perché ignorati, al più contestati, ma con istrionismo subdolo, appunto democristiano.
Perché poi il resto era una passerella annoiata e sbadigliosa delle cartucce migliori dei vari uffici stampa che, nemmanco a dirlo, sparano tutti a salve. Con qualche scoreggetta quasi silente di contorno.
Ora sorgono spontanee e varie considerazioni ed una precisazione. La precisazione è: chi è Massimo Mongai? Per i non addetti è uno scrittore decente di fantascienza e uno piuttosto noioso e allappacervello di noir (la sua serie dedicata all'investigatore etiope Ras Tafari per le edizioni Robin è una delle cose più soporifere che si possano leggere).
Le considerazioni partono da un ricordo: negli anni ottanta andarono molto di moda le scuole di taglio (per barbieri, non per sarti); le hairy schools fiorirono meglio che le margherite nei campetti di calcio delle periferie, con l'unico risultato di vedere una massa informe di uomini e donne andare in giro coi capelli tagliati allo stesso modo. Un alienante tricotico e cotonato mondo di cloni imbellettati.
Per fortuna la moda passò. Ma purtroppo tutto il male vien per nuocere (o per suocere, vedete voi): negli anni novanta fiorirono altre scuole, quelle di scrittura creativa (è evidente, nel momento in cui i termini "scuola" e "creatività" vengono associati, si crea immediatamente una contraddizione in termini, potremmo addirittura parlare di anfibologia, se la locuzione non implicasse un'ambiguità o una duplice interpretazione che in questo caso, proprio perché è evidente il senso da dare al tutto, non ha). Ricordo ancora con particolare pathos quella di Giulio Mozzi, a cavallo tra il 1999 e il 2000, che con vero spirito imprenditorial-consumistico proponeva una SCRITTURA CREATIVA IN VACANZA ad Ischia (sic!) o quella ancor più suggestiva del magister vitae Roberto Cotroneo che dalla città di Otranto si tenterà di scrivere racconti che prendano linfa creativa (aridaje) dalle vie, dalle suggestioni, dalla luce abbagliante della città in cui ci troviamo. Non dimenticando però di suggerire agli improvvidi frequentatori di passare prima in cassa e sborsare soldi.
Ora siamo passati alla scrittura-spettacolo grazie al noiosissimo Mongai. E immagino cosa possa succedere durante incontri del genere: tutti a suggerire idee, alzando la mano, salvo poi scambiare qualche impellente necessità fisiologica in un'imbeccata "geniale".
Ma alla recentissima Fiera della piccola e media editoria svoltasi a Roma le cose offerte non erano poi così diverse. Tra sbadigli squassanti e borborigmi incomprensibili dei giubilanti editor (quando esistono!) delle innumerevoli case editrici presenti che hanno, nel proprio catalogo, i migliori scrittori esistenti sul suolo nazionale o quanto meno le migliori promesse, curiosamente ho avvertito fra questi stessi addetti ai lavori e tra le maestranze una certa resistenza ideologica alle sfanculate grillesche (non che io sia paladino del Grillo) e alle grida di dolore che s'alzano da più parti.
Cos'è l'editoria nostrana, un'isola felice, l'eden pacificato che respinge gli attacchi di barbari contestatori?
Goffredo Fofi, presentando un'antologia di "inchiestatori" (come li ha definiti lui) per i tipi della Minimum Fax ha ribadito il suo no deciso agli stentorei e pericolosissimi proclami di una contropolitica (anti?) da spettacolo e qualunquista.
Dario Franceschini (sì quello dell'ex Margherita) ha ribadito la necessità di forme nuove di comunicazioni (quali, mi chiedo, quelle per le quali è improponibile risolvere l'annoso conflitto di interesse perché c'è in ballo l'inciucio nazionalpopolare per la nuova riforma elettorale? O quelle di una classe politica che a mala pena sa cos'è la Rete?).
L'immarciscibile Nanni Balestrini invece, fiducioso delle sorti progressiste e del sol dell'avvenire, discettava di narrativa digitale (d'altronde come può uno che del nuovo e delle neoavanguardie ha fatto lo scopo principale della propria esistenza trovarsi impreparato rispetto alle forme più stringenti della narrativa ultima?).
Eppure non mi convinco di questa difesa ad oltranza delle cittadelle di cultura di fronte al vaffanculismo di protesta, sì populista per carità, sì eccessivo in certe manifestazioni, ma lungi dall'essere prodromo di scatenamenti simil-fascisti (s'è detto anche questo).
Questa mostra dell'editoria è figlia del più recente veltronismo: non reazionario, ma di costituzione neodemocristiana, dove gli estremi convivono perché ignorati, al più contestati, ma con istrionismo subdolo, appunto democristiano.
Perché poi il resto era una passerella annoiata e sbadigliosa delle cartucce migliori dei vari uffici stampa che, nemmanco a dirlo, sparano tutti a salve. Con qualche scoreggetta quasi silente di contorno.
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