RECENSIONI
Gian Piero Bona
L'amico ebreo
Ponte alle Grazie, Pag. 203 Euro 14,00![immagine](uploads/tx_orchidata/cover-lamico-ebreo.jpg)
Chi ci segue sa che abbiamo già parlato di Bona, e precisamente nella sezione Classici, dove abbiamo posto la nostra attenzione su I pantaloni d’oro, un libro su cui spietatamente dicevamo: mostra un carosello parziale di infiltrati della vita: aristocratici, disperati, ladri squattrinati, preti, soldati (un leit motiv questi ultimi di Bona: chi ricorda i militari de Il soldato nudo?) quasi tutti impegnati nell'arte della prostituzione maschile, se non del travestitismo.
In realtà non eravamo spietati, ma soltanto reali, nel senso che Bona è stato uno dei pochi (ma veramente pochi) scrittori italiani a mostrare la vita coperta dei gay italiani.
Ora perché mai dovremmo parlare di un uomo che ha superato i novant’anni e che si trova a raccontare di un episodio accaduto durante il fascismo in cui fu testimone un suo amico e compagno di conservatorio?
Perché intanto l’episodio è raccontato con un linguaggio serio ed appropriato (anche se a volte stenta a tenere il passo) e poi perché di fronte a tanti omicidi seriali e alle tante sciocchezze contemporanee, ha un forte richiamo alla storia e alla realtà.
La famiglia Bona accoglie in casa Sergej, ebreo quindicenne di origine russa, coetaneo e compagno di conservatorio di Gian Piero, proteggendolo dai rastrellamenti che già colpiscono il paese in cui si trovano.
A tutto questo si aggiunga l’episodio del comandante locale delle SS, Richtel, che dopo l’8 settembre decide di installarsi proprio nella villa dei Bona.
Il libro è una serie di considerazioni sulla morte, sull’arte del sopravvivere e sul significato dell’essere (un po’ troppo conclamato, ma se vogliamo anche necessario).
Qualche esempio (soprattutto per la lingua): Altre volte le bombe ci caddero sulla testa. Ma una volta prendemmo il coraggio di uscire con calma sulla piazza della stazione di Porta Nuova. A protezione lui portava Kafka sul petto, io Claudel, e le aspettavamo cinicamente. Per mezzo di quella eventuale sciagura in comune, io esorcizzavo la sua sciagura personale.
Ancora: In quegli anni imparammo a “morire in piedi” come dice la frase di Orazio che il professore di latino non sapeva spiegare, ma che nel nostro caso era diventata chiara, e cioè morire dall’angoscia che il nascondiglio dell’ebreo fosse scoperto e che la mia famiglia ne subisse la rappresaglia.
A questo s’aggiunga il lato sessuale della cosa: non so se sia per la presenza di Bona, ma ad un certo punto, ma sul tardi, i due s’incontrano anche sessualmente, concludendo così la loro fase conoscitiva.
E’ tutto, non credo ci sia altro da dire. Il romanzo è bello anche se troppo letterario, letterario nel senso di insistere troppo sui rimandi testimoniali e un po’ meno su quelli esplicativi. Accadono molte cose, ma in realtà l’unica essenza del libro sta nelle considerazioni culturali dei due protagonisti.
O forse siamo noi: così abituati a l’inessenza delle cose e alla ripetitività degli elementi cognitivi.
Bravo il nostro novantenne.
di Alfredo Ronci
In realtà non eravamo spietati, ma soltanto reali, nel senso che Bona è stato uno dei pochi (ma veramente pochi) scrittori italiani a mostrare la vita coperta dei gay italiani.
Ora perché mai dovremmo parlare di un uomo che ha superato i novant’anni e che si trova a raccontare di un episodio accaduto durante il fascismo in cui fu testimone un suo amico e compagno di conservatorio?
Perché intanto l’episodio è raccontato con un linguaggio serio ed appropriato (anche se a volte stenta a tenere il passo) e poi perché di fronte a tanti omicidi seriali e alle tante sciocchezze contemporanee, ha un forte richiamo alla storia e alla realtà.
La famiglia Bona accoglie in casa Sergej, ebreo quindicenne di origine russa, coetaneo e compagno di conservatorio di Gian Piero, proteggendolo dai rastrellamenti che già colpiscono il paese in cui si trovano.
A tutto questo si aggiunga l’episodio del comandante locale delle SS, Richtel, che dopo l’8 settembre decide di installarsi proprio nella villa dei Bona.
Il libro è una serie di considerazioni sulla morte, sull’arte del sopravvivere e sul significato dell’essere (un po’ troppo conclamato, ma se vogliamo anche necessario).
Qualche esempio (soprattutto per la lingua): Altre volte le bombe ci caddero sulla testa. Ma una volta prendemmo il coraggio di uscire con calma sulla piazza della stazione di Porta Nuova. A protezione lui portava Kafka sul petto, io Claudel, e le aspettavamo cinicamente. Per mezzo di quella eventuale sciagura in comune, io esorcizzavo la sua sciagura personale.
Ancora: In quegli anni imparammo a “morire in piedi” come dice la frase di Orazio che il professore di latino non sapeva spiegare, ma che nel nostro caso era diventata chiara, e cioè morire dall’angoscia che il nascondiglio dell’ebreo fosse scoperto e che la mia famiglia ne subisse la rappresaglia.
A questo s’aggiunga il lato sessuale della cosa: non so se sia per la presenza di Bona, ma ad un certo punto, ma sul tardi, i due s’incontrano anche sessualmente, concludendo così la loro fase conoscitiva.
E’ tutto, non credo ci sia altro da dire. Il romanzo è bello anche se troppo letterario, letterario nel senso di insistere troppo sui rimandi testimoniali e un po’ meno su quelli esplicativi. Accadono molte cose, ma in realtà l’unica essenza del libro sta nelle considerazioni culturali dei due protagonisti.
O forse siamo noi: così abituati a l’inessenza delle cose e alla ripetitività degli elementi cognitivi.
Bravo il nostro novantenne.
di Alfredo Ronci
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