RECENSIONI
Tullio Avoledo
L'anno dei dodici inverni
Einaudi, Pag. 371 Euro 19,00
A detta degli esperti di settore (da spanciarsi dal ridere) uno dei talenti più evidenti della nostra povera letteratura (lo spanciarsi ovviamente riguarda i cosiddetti 'competenti' non certo Avoledo) nonostante non sia di primo pelo (anzi: classe 1957). Ma dalla sua un esordio folgorante L'elenco telefonico di Atlantide e la successiva conferma Tre sono le cose misteriose.
L'anno dei dodici inverni vibra di un soffio dickensiano. La storia, fantastica (ma vedremo che lo è parzialmente), onirica, fantascientifica si carica di un linguaggio appropriato a seconda delle situazioni: sembra ad un passo dal calco classico (o forse lo è, abituati come siamo ad un disprezzo quasi naturale delle parole da parte della narrativa contemporanea, soprattutto giovanile e giovanilistica), così ricca di impressioni e di rimandi, ma priva di distanziazioni dal testo che sempre la narrativa contemporanea, quella più apparentemente nutritiva, crede sia necessario esporre.
La lingua di Avoledo è un incedere quasi maestoso, perché la lettura si presta al suo passo: e noi lettori siamo pressi dal gorgo degli avvenimenti.
Sì perché ce ne sono tanti, apparentemente slegati tra loro, ma poi riconducibili tutti ad una struttura portante essenziale e determinante.
La trama potrebbe essere ridotta a pochi elementi,perché quel che è rilevante, appena scritto poco fa, è l'andatura stessa del libro, il suo fluire pagina dopo pagina in un affascinante quadro della fantasia e dell'attualità.
Un uomo, che si scoprirà presto che viene dal futuro, fa visita nei giorni immediatamente dopo il natale, ad una coppia che ha appena avuto una bambina chiedendo loro solo la possibilità di poter scrivere sulla neonata e di venirla a trovare una volta l'anno.
Non occorre dire di più, non per riguardo ad un lettore frettoloso di intrugli ed intrecci, ma perché la consistenza del romanzo è altro e di più: innanzi tutto una storia d'amore, di quelle che pensarle (per uno scrittore) di questi tempi potrebbe creare imbarazzo, e poi una lucida riflessione sulla contemporaneità.
Ecco perché all'inizio, qualificando il romanzo come fantastico, ci riservavamo il diritto di dire anche l'esatto contrario: perché l'apparente stravolgimento della trama (come fosse davvero un romanzo di Dick, autore sempre citato da Avoledo e a questo punto crediamo adorato) non inficia un contatto diretto con la Storia, con gli avvenimenti degli ultimi anni (un accenno ai mondiali di calcio di Spagna vinti dagli azzurri, ma soprattutto la tragedia della principessa Diana), che una azzeccata quarta di copertina definisce addirittura la folle cronaca dei nostri anni recenti.
L'anno dei dodici inverni ha poi un incipit che qualifica ogni sostanza: Un poeta arabo, tanto tempo fa, ha scritto che il cuore contiene ogni cosa. Non so se è vero. Ho imparato a non fidarmi dei poeti. Più sono bravi e più ti portano lontano dalla verità.
Invece la verità ultima di questo romanzo di Avoledo è la sua piena adesione alla vita. Lo ripetiamo senza imbarazzo – ma perché mai? – questo è una storia d'amore, con gli annessi e connessi, con tutti gli sguardi amorosi del caso, con tutte le promesse, con i ricordi e le nostalgie.
E proprio per questo, affascinante e commovente come può esserlo soltanto una grande passione.
Hanno ragione i tanto distrattati (da me) soloni della nostra editoria: Avoledo è un talento. Cerchiamo, una volta tanto, di tenercelo e di non costringerlo a compromessi inutili e meschini.
E se ci fosse un regista di buone speranze, in questa terra di cachi, perché del romanzo non farne un film delizioso?
di Alfredo Ronci
L'anno dei dodici inverni vibra di un soffio dickensiano. La storia, fantastica (ma vedremo che lo è parzialmente), onirica, fantascientifica si carica di un linguaggio appropriato a seconda delle situazioni: sembra ad un passo dal calco classico (o forse lo è, abituati come siamo ad un disprezzo quasi naturale delle parole da parte della narrativa contemporanea, soprattutto giovanile e giovanilistica), così ricca di impressioni e di rimandi, ma priva di distanziazioni dal testo che sempre la narrativa contemporanea, quella più apparentemente nutritiva, crede sia necessario esporre.
La lingua di Avoledo è un incedere quasi maestoso, perché la lettura si presta al suo passo: e noi lettori siamo pressi dal gorgo degli avvenimenti.
Sì perché ce ne sono tanti, apparentemente slegati tra loro, ma poi riconducibili tutti ad una struttura portante essenziale e determinante.
La trama potrebbe essere ridotta a pochi elementi,perché quel che è rilevante, appena scritto poco fa, è l'andatura stessa del libro, il suo fluire pagina dopo pagina in un affascinante quadro della fantasia e dell'attualità.
Un uomo, che si scoprirà presto che viene dal futuro, fa visita nei giorni immediatamente dopo il natale, ad una coppia che ha appena avuto una bambina chiedendo loro solo la possibilità di poter scrivere sulla neonata e di venirla a trovare una volta l'anno.
Non occorre dire di più, non per riguardo ad un lettore frettoloso di intrugli ed intrecci, ma perché la consistenza del romanzo è altro e di più: innanzi tutto una storia d'amore, di quelle che pensarle (per uno scrittore) di questi tempi potrebbe creare imbarazzo, e poi una lucida riflessione sulla contemporaneità.
Ecco perché all'inizio, qualificando il romanzo come fantastico, ci riservavamo il diritto di dire anche l'esatto contrario: perché l'apparente stravolgimento della trama (come fosse davvero un romanzo di Dick, autore sempre citato da Avoledo e a questo punto crediamo adorato) non inficia un contatto diretto con la Storia, con gli avvenimenti degli ultimi anni (un accenno ai mondiali di calcio di Spagna vinti dagli azzurri, ma soprattutto la tragedia della principessa Diana), che una azzeccata quarta di copertina definisce addirittura la folle cronaca dei nostri anni recenti.
L'anno dei dodici inverni ha poi un incipit che qualifica ogni sostanza: Un poeta arabo, tanto tempo fa, ha scritto che il cuore contiene ogni cosa. Non so se è vero. Ho imparato a non fidarmi dei poeti. Più sono bravi e più ti portano lontano dalla verità.
Invece la verità ultima di questo romanzo di Avoledo è la sua piena adesione alla vita. Lo ripetiamo senza imbarazzo – ma perché mai? – questo è una storia d'amore, con gli annessi e connessi, con tutti gli sguardi amorosi del caso, con tutte le promesse, con i ricordi e le nostalgie.
E proprio per questo, affascinante e commovente come può esserlo soltanto una grande passione.
Hanno ragione i tanto distrattati (da me) soloni della nostra editoria: Avoledo è un talento. Cerchiamo, una volta tanto, di tenercelo e di non costringerlo a compromessi inutili e meschini.
E se ci fosse un regista di buone speranze, in questa terra di cachi, perché del romanzo non farne un film delizioso?
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