RECENSIONI
Jo Nesbø
La stella del diavolo
Piemme-I maestri del thriller, Pag. 494 Euro 6,50
Scrivevo di lui in una precedente recensione: 'Jo Nesbo, creatore di Harry Hole, è davvero una delle firme noir più in voga del poliziesco nord-europeo, ma contrariamente ad altri scrittori che abbiamo anche incontrato e che tutt'ora fanno la felicità dei fans del noir nordico, manca un po' di atmosfera e di quella chiotta inclinazione ad intrecciar trama tra meteorologia e vecchi sentimenti. Nesbo sembra davvero un americano 'standard', abile quanto si vuole, ma poco riconoscibile nonostante le differenze geografiche.'
Confermo, dopo la lettura di questo nuovo romanzo. Perché diciamocela, se dovessi scegliere tra la triade 'milionaria' - e cioè, Nesbo appunto, Stieg Larsson e Mankell – la mia preferenza va a quest'ultimo. Perché è quello che tiene a distanza l'insegnamento americano, che se ha un senso dire 'noir', e non giallo, o anche poliziesco, proprio quando si voglia caratterizzare localmente un genere, allora le avventure di Wallander e dei suoi simili hanno quel qualcosa di internamente ed intensamente'nordico' che ce le fanno apprezzare di più. Per la sottoscritta poi, Mankell può davvero essere l'erede di Simenon.
Ne La stella del diavolo torna la figura centrale dell'opera di Nesbo, il commissario Harry Hole che, come dicevamo anche in un'altra occasione, sentendosi un po' Harry Bosch (c'ha pure lo stesso nome) soffre un po' di crisi d'identità. In questo romanzo non fa sfoggio di cultura (è uno che cita spesso Aristotele, ça va sans dire, e gli piacciono i Radiohead), ma è quasi ciucco e disperato per quasi tutta la durata della vicenda, ed infatti rischia anche il licenziamento, se non fosse per un intuito di un certo spessore che lo porta a districare matasse rognose.
Qui – ed ecco il sempieterno elemento che non so fino a che punto, ormai, abbia la sua fascinazione ed il suo potere di 'aggancio' – s'aggira un serial killer che 'firma' le sue vittime con un diamantino a forma di stella.
Ora capirete che gli scrittori – dopo decenni e decenni – non sanno che inventarsi per essere originali e distinguere una storia seriale da un'altra. Nesbo, proprio perché, come si diceva prima, americaneggia anzicheno, dice la sua: per carità, riesce pure in qualche modo a terminare la fatica con dignità e mestiere (questo romanzo è superiore per capacità attrattiva al precedente Nemesi), ma nel lettore rimane comunque l'impressione di essere di fronte all'ennesima variazione di un tema ormai trito.
Curioso a pagina 239 un risvolto 'licenzioso' dove si dibatte il tema della necessità dell'uomo etero di essere comunque penetrato (sì, sì, in quel senso): Lasciarsi penetrare è una cosa fondamentale. Il che, in un'estate ormai avviata, potrebbe essere l'occasione, sotto l'ombrellone, di disquisire su un tema inusuale e tutto sommato pepato, insieme all'altra notizia della probabile operazione di Vladimir Luxuria. Che uno potrebbe concludere il pezzo ironicamente dicendo: ambasciator non porta pene. Ma in uno dei nostri casi lo 'porterebbe', nell'altro, crediamo, lo sottrae.
di Eleonora del Poggio
Confermo, dopo la lettura di questo nuovo romanzo. Perché diciamocela, se dovessi scegliere tra la triade 'milionaria' - e cioè, Nesbo appunto, Stieg Larsson e Mankell – la mia preferenza va a quest'ultimo. Perché è quello che tiene a distanza l'insegnamento americano, che se ha un senso dire 'noir', e non giallo, o anche poliziesco, proprio quando si voglia caratterizzare localmente un genere, allora le avventure di Wallander e dei suoi simili hanno quel qualcosa di internamente ed intensamente'nordico' che ce le fanno apprezzare di più. Per la sottoscritta poi, Mankell può davvero essere l'erede di Simenon.
Ne La stella del diavolo torna la figura centrale dell'opera di Nesbo, il commissario Harry Hole che, come dicevamo anche in un'altra occasione, sentendosi un po' Harry Bosch (c'ha pure lo stesso nome) soffre un po' di crisi d'identità. In questo romanzo non fa sfoggio di cultura (è uno che cita spesso Aristotele, ça va sans dire, e gli piacciono i Radiohead), ma è quasi ciucco e disperato per quasi tutta la durata della vicenda, ed infatti rischia anche il licenziamento, se non fosse per un intuito di un certo spessore che lo porta a districare matasse rognose.
Qui – ed ecco il sempieterno elemento che non so fino a che punto, ormai, abbia la sua fascinazione ed il suo potere di 'aggancio' – s'aggira un serial killer che 'firma' le sue vittime con un diamantino a forma di stella.
Ora capirete che gli scrittori – dopo decenni e decenni – non sanno che inventarsi per essere originali e distinguere una storia seriale da un'altra. Nesbo, proprio perché, come si diceva prima, americaneggia anzicheno, dice la sua: per carità, riesce pure in qualche modo a terminare la fatica con dignità e mestiere (questo romanzo è superiore per capacità attrattiva al precedente Nemesi), ma nel lettore rimane comunque l'impressione di essere di fronte all'ennesima variazione di un tema ormai trito.
Curioso a pagina 239 un risvolto 'licenzioso' dove si dibatte il tema della necessità dell'uomo etero di essere comunque penetrato (sì, sì, in quel senso): Lasciarsi penetrare è una cosa fondamentale. Il che, in un'estate ormai avviata, potrebbe essere l'occasione, sotto l'ombrellone, di disquisire su un tema inusuale e tutto sommato pepato, insieme all'altra notizia della probabile operazione di Vladimir Luxuria. Che uno potrebbe concludere il pezzo ironicamente dicendo: ambasciator non porta pene. Ma in uno dei nostri casi lo 'porterebbe', nell'altro, crediamo, lo sottrae.
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