RECENSIONI
Savyon Liebrecht
Le donne di mio padre
edizioni e/o, Pag. 253 Euro 18,00
Se i partecipanti a quella incredibile manifestazione contro la presenza di Israele alla recente fiera del libro di Torino avessero letto questo romanzo probabilmente sarebbero rimasti a casa a cospargersi la testa di cenere.
Non entro nel merito delle polemiche, non me ne frega nulla, mi ritengo superiore a certe dispute, perché poi, come avrebbe detto Virgilio ab uno disce omnis (da uno capisci come sono tutti). Preferisco parlare di Le donne di mio padre e con molta probabilità esagerare sulla sua esplorazione perché, al di là della vicenda toccante e crepuscolare di un uomo che viene a sapere dalla madre che il padre ritenuto morto in realtà è ancora vivo, vi ho scorso un senso più politico dell'incedere, una storicizzazione lucida e consapevole anche del problema della diaspora del popolo israeliano.
Le 'disavventure' di questo bambino, prima abbandonato dalla madre, poi costretto a stare dietro alla vita artistica e bohemienne del padre, un senza fissa dimora con l'ossessione delle donne, poi di nuovo con la madre ma in terra americana, hanno un che di incancellabile, una sorta di cartina di tornasole non solo di vicende individuali, ma, come si diceva poc'anzi, di una visione più completa di una tragedia comune.
Quel bambino, vittima di una serie di eventi imprevedibili, è l'emblema di una dispersione (in fondo il concetto di diaspora è proprio quello, no?) prima di tutto di sentimenti, poi di una riconoscibilità se vogliamo anche storica.
Il libro non procede linearmente, gli inserti, i ricordi spesso si contrappongono al presente, a quel presente che per un ragazzo diventato uomo rappresentano all'improvviso una riacutizzazione di mille mali. Quando il protagonista scopre che suo padre è vivo avvertiamo in lui uno sbigottimento che è maggiore assai della meraviglia per la ricomposizione degli affetti. E questa la dice lunga sul senso da dare non solo alla consanguineità, ma al mondo intero dei rapporti umani.
E ci si mette pure il padre quando dice: Suo padre abbassò lo sguardo, in segno di resa. «Chi vive un presente desolato tende a gonfiare il passato. La cosa più facile è imbastire a scelta i ricordi. E' la cosa più facile, ma anche la più stupida». Pag.183.
Come a dire che è meglio lasciarsi guidare dalla kunderiana insostenibile leggerezza dell'essere. Ma per chi 'essere' lo è stato parzialmente, sempre dietro a rimasugli di vita e persino di sostentamento, per chi ha subìto spostamenti di vario genere nel tentativo di addivenire principalmente a sé stesso, la leggerezza che si richiede può non rappresentare nulla, può persino rappresentare un passo verso l'abisso.
Questo romanzo è splendido per la capacità di consegnarci il dramma di un bambino-uomo che potrebbe essere qualsiasi bambino-uomo di questa terra. Diventa anche emblema, come si diceva prima, di un dramma collettivo. Avrà pure un senso poi che l'autrice che ce lo ha raccontato splendidamente sia israeliana?
di Alfredo Ronci
Non entro nel merito delle polemiche, non me ne frega nulla, mi ritengo superiore a certe dispute, perché poi, come avrebbe detto Virgilio ab uno disce omnis (da uno capisci come sono tutti). Preferisco parlare di Le donne di mio padre e con molta probabilità esagerare sulla sua esplorazione perché, al di là della vicenda toccante e crepuscolare di un uomo che viene a sapere dalla madre che il padre ritenuto morto in realtà è ancora vivo, vi ho scorso un senso più politico dell'incedere, una storicizzazione lucida e consapevole anche del problema della diaspora del popolo israeliano.
Le 'disavventure' di questo bambino, prima abbandonato dalla madre, poi costretto a stare dietro alla vita artistica e bohemienne del padre, un senza fissa dimora con l'ossessione delle donne, poi di nuovo con la madre ma in terra americana, hanno un che di incancellabile, una sorta di cartina di tornasole non solo di vicende individuali, ma, come si diceva poc'anzi, di una visione più completa di una tragedia comune.
Quel bambino, vittima di una serie di eventi imprevedibili, è l'emblema di una dispersione (in fondo il concetto di diaspora è proprio quello, no?) prima di tutto di sentimenti, poi di una riconoscibilità se vogliamo anche storica.
Il libro non procede linearmente, gli inserti, i ricordi spesso si contrappongono al presente, a quel presente che per un ragazzo diventato uomo rappresentano all'improvviso una riacutizzazione di mille mali. Quando il protagonista scopre che suo padre è vivo avvertiamo in lui uno sbigottimento che è maggiore assai della meraviglia per la ricomposizione degli affetti. E questa la dice lunga sul senso da dare non solo alla consanguineità, ma al mondo intero dei rapporti umani.
E ci si mette pure il padre quando dice: Suo padre abbassò lo sguardo, in segno di resa. «Chi vive un presente desolato tende a gonfiare il passato. La cosa più facile è imbastire a scelta i ricordi. E' la cosa più facile, ma anche la più stupida». Pag.183.
Come a dire che è meglio lasciarsi guidare dalla kunderiana insostenibile leggerezza dell'essere. Ma per chi 'essere' lo è stato parzialmente, sempre dietro a rimasugli di vita e persino di sostentamento, per chi ha subìto spostamenti di vario genere nel tentativo di addivenire principalmente a sé stesso, la leggerezza che si richiede può non rappresentare nulla, può persino rappresentare un passo verso l'abisso.
Questo romanzo è splendido per la capacità di consegnarci il dramma di un bambino-uomo che potrebbe essere qualsiasi bambino-uomo di questa terra. Diventa anche emblema, come si diceva prima, di un dramma collettivo. Avrà pure un senso poi che l'autrice che ce lo ha raccontato splendidamente sia israeliana?
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