ATTUALITA'
Stefano Torossi
Romani antichi e moderni
“Traiano. Costruire l’Impero, creare l’Europa”. Martedì 28 novembre, pomeriggio avanzato, quasi sera. Si inaugura la mostra ai Mercati Traianei di Roma.
Difficile immaginare un argomento più interessante e una location più speciale. Oltretutto è una di quelle serate limpidissime di luna quasi piena, che, insieme alla nuova illuminazione dei fori imperiali sui quali si affacciano i finestroni di quel centro congressi, supermercato, grande magazzino di venti secoli fa che costeggia il Foro Traiano, contribuisce a trasformare un evento da mondano a qualcosa di più: una magia di cultura e bellezza.
Quella di Traiano fu l’epoca migliore. Le sponde del Mediterraneo erano tutte romane; in città arrivavano insieme ai più bei marmi del mondo i migliori architetti, scultori e scalpellini, e tutto quello che si faceva era straordinario.
Robaccia probabilmente la sfornavano anche allora, solo che, per fortuna, se c’era, non ha resistito ai millenni. D’altra parte, chissà quante cose anche più belle di quelle sopravvissute sono scomparse e noi non ne sapremo mai niente.
Come non sapremo mai niente di opere d’arte realizzate con materiali deperibili: quadri (tele e cornici non durano due millenni), vestiti, mobili e sculture in legno (idem), gioielli (idem, non per le ingiurie del tempo, ma per l’avidità dei posteri), per non parlare delle statue di bronzo che nei secoli hanno quasi tutte preso la strada della fonderia per trasformarsi in cannoni.
Rimane il marmo, anche questo a rischio di essere bruciato nelle calcare; solo che ce ne doveva essere talmente tanto in giro, che qualche briciola è arrivata fino a noi.
E qui sono in mostra alcune di queste briciole così squisite da non credere: una mano: viva; il primissimo piano di una bocca con le sue rughe di espressione più vere della carne.
Ci è toccato aspettare parecchi secoli per ritrovare qualcosa di simile con Michelangelo e Bernini.
Ci sono anche frammenti di capitelli, di cornicioni, di architravi; elementi architettonici che stavano lassù a dieci, dodici, quindici metri. E da terra, a quell’altezza, è matematico che i finissimi ornamenti ricavati con lo scalpello nel marmo non fossero assolutamente visibili. Eppure ci sono, tutti incisi accuratamente e poi levigati con attenzione. Se gli uomini non potevano distinguerli, per chi erano scolpiti? Per gli Dei, per l’Imperatore, per il semplice amore di fare bene il proprio lavoro?
Per fortuna abbiamo visto anche qualche peccatuccio, qualche furbizia, scoperto degli altarini, che ci hanno permesso di non soccombere del tutto davanti a tanta perfezione. Non tutte le palmette, gli ovuli, i dadi, le decorazioni minori insomma, sono ben rifiniti; alcuni sono appena sbozzati, altri quasi solo fantasmi del disegno originale.
Tanto c’era la vernice colorata a coprire tutto: il ben fatto e il mal fatto. E di sicuro, lassù nessuno avrebbe potuto vedere la differenza. Se non, forse, gli Dei.
A proposito di perfezione e di difettucci, non possiamo non citare il quintetto di ottoni che, per allietare il pubblico e spostandosi di sala in sala, suona (bene) fanfare e brani trionfali di Bach e altri.
E fin qui, di sicuro, niente da obiettare. Però a un certo punto i cinque sciagurati si avventurano incautamente una compilation di Gershwin in stile charleston.
Da brivido, ma di raccapriccio.
Oh, e poi ci è apparsa questa scritta, evidentemente destinata al pubblico di turisti.
Gli antichi romani erano riusciti a costruire l’impero più grande del mondo.
Quelli moderni, neanche capaci di scrivere un cartello in inglese.
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