RECENSIONI
Birgit Vanderbeke
Sweet sixteen
Del Vecchio Editore, Pag.116 Euro 13,00
I recenti fatti di Guidonia e di Nettuno hanno riproposto l'annosa questione del: dove accidenti stanno andando i giovani d'oggi? Formula questa (o domanda) che rimbalza puntuale ad ogni stormir di fronde e che finché moriremo sarà sempre al centro dell'attenzione di psicologi e sociologi da strapazzo e brunivespi televisivi.
Figuriamoci se la letteratura, e soprattutto la letteratura contemporanea, non voglia esprimere il proprio punto di vista con un occhio al mercato e l'altro al rendiconto personale: sembrano due occhi, ma a ben vedere (!) è attività monoculare.
Devo ammettere che la Birgit Vanderbeke affronta la problematica con un taglio originale: lo fa documentandosi, crediamo noi, e andando dietro a quegli stimoli e a quelle aggregazioni giovanili senza le quali non avremmo nemmeno una questione da affrontare.
Fa un'operazione che assomiglia vagamente a quella di Gus Van Sant nel suo Elephant: in qualche modo si astiene dall'entrare nell'agone mediatico e racconta una storia freddamente, fotografandola così com'è senza nessun orpello aggiuntivo.
E qual è 'sta storia? Un ragazzo scompare il giorno del suo sedicesimo compleanno, senza lasciare traccia di sé. I genitori, disperati, si rivolgono alla polizia, senza che questa venga a capo del mistero. Quando, tempo dopo, scompare anche il figlio di un famoso personaggio televisivo, le autorità collegano i due fatti e rapidamente ci si accorge che il fenomeno riguarda molti più giovani. Cosa sta accadendo? Cos'è il movimento 'Sweet Sixteen'?
L'autrice ci da qualche indicazione, ci instrada per meglio dire: Una nota a pie' di pagina spiegava che era stato Yamakazi, un insignificante redattore di una insignificante piccola rivista, a dare il nome otaku alla massa di ragazzi dipendenti dal pc, attribuendole così un'identità, laddove proprio la questione dell'identità era per gli otaku qualcosa di più complicato. (Pag. 46).
A pag. 56, in un confronto generazionale tra chi vorrebbe capire il fenomeno e chi ne fa parte si legge: Noi avevamo Marlon Brando. Loro hanno Edward Norton e Brad Pitt. Come a dire Fronte del porto contro Fight Club.
E per non farsi mancare nulla la Vanderbeke disquisisce anche di alimentazione: Ne viene fuori un miscuglio tra otaku, i parkour e gli skater, disse Saskia. Quindi Josha. A proposito di Josha: uno di voi sa cos'è un natto? (...) i natto sono fagioli disoia. Fermentati. In Giappone li mangiano a colazione. (...) E' la stessa cosa con i durian, disse Roman. Puzzano da morire, tanto che non puoi mangiarli negli hotel o sui mezzi pubblici. (Pag. 73).
Il bello è che più si entra nel micro-macro cosmo giovanile, più se ne esce fuori storditi e lontani da qualsiasi forma di comprensione. Dicevamo all'inizio: l'autrice fa bene a fotografare la realtà senza entrare troppo nel dettaglio sociologico, nel senso che se bisogna fare i Soloni, la Vanderbeke lo lascia fare agli altri. Lei scatta flash a ripetizione: il risultato è una scia di fotogrammi lucenti, ma sfuocati. Avrebbero fatto la gioia dei futuristi.
di Alfredo Ronci
Figuriamoci se la letteratura, e soprattutto la letteratura contemporanea, non voglia esprimere il proprio punto di vista con un occhio al mercato e l'altro al rendiconto personale: sembrano due occhi, ma a ben vedere (!) è attività monoculare.
Devo ammettere che la Birgit Vanderbeke affronta la problematica con un taglio originale: lo fa documentandosi, crediamo noi, e andando dietro a quegli stimoli e a quelle aggregazioni giovanili senza le quali non avremmo nemmeno una questione da affrontare.
Fa un'operazione che assomiglia vagamente a quella di Gus Van Sant nel suo Elephant: in qualche modo si astiene dall'entrare nell'agone mediatico e racconta una storia freddamente, fotografandola così com'è senza nessun orpello aggiuntivo.
E qual è 'sta storia? Un ragazzo scompare il giorno del suo sedicesimo compleanno, senza lasciare traccia di sé. I genitori, disperati, si rivolgono alla polizia, senza che questa venga a capo del mistero. Quando, tempo dopo, scompare anche il figlio di un famoso personaggio televisivo, le autorità collegano i due fatti e rapidamente ci si accorge che il fenomeno riguarda molti più giovani. Cosa sta accadendo? Cos'è il movimento 'Sweet Sixteen'?
L'autrice ci da qualche indicazione, ci instrada per meglio dire: Una nota a pie' di pagina spiegava che era stato Yamakazi, un insignificante redattore di una insignificante piccola rivista, a dare il nome otaku alla massa di ragazzi dipendenti dal pc, attribuendole così un'identità, laddove proprio la questione dell'identità era per gli otaku qualcosa di più complicato. (Pag. 46).
A pag. 56, in un confronto generazionale tra chi vorrebbe capire il fenomeno e chi ne fa parte si legge: Noi avevamo Marlon Brando. Loro hanno Edward Norton e Brad Pitt. Come a dire Fronte del porto contro Fight Club.
E per non farsi mancare nulla la Vanderbeke disquisisce anche di alimentazione: Ne viene fuori un miscuglio tra otaku, i parkour e gli skater, disse Saskia. Quindi Josha. A proposito di Josha: uno di voi sa cos'è un natto? (...) i natto sono fagioli disoia. Fermentati. In Giappone li mangiano a colazione. (...) E' la stessa cosa con i durian, disse Roman. Puzzano da morire, tanto che non puoi mangiarli negli hotel o sui mezzi pubblici. (Pag. 73).
Il bello è che più si entra nel micro-macro cosmo giovanile, più se ne esce fuori storditi e lontani da qualsiasi forma di comprensione. Dicevamo all'inizio: l'autrice fa bene a fotografare la realtà senza entrare troppo nel dettaglio sociologico, nel senso che se bisogna fare i Soloni, la Vanderbeke lo lascia fare agli altri. Lei scatta flash a ripetizione: il risultato è una scia di fotogrammi lucenti, ma sfuocati. Avrebbero fatto la gioia dei futuristi.
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