RECENSIONI
Arnadur Indridason
Un caso archiviato
Guanda, Pag. 304 Euro 18.00
Lo confesso: ero stata un po' troppo rigida nei confronti dello scrittore islandese dopo l'uscita de La voce. Lo avevo inserito sì in una lista di autori 'confidenziali', ma la struttura del romanzo lo faceva nello stesso tempo scivolare in una sorta di limbo 'hard-boiled' poco caratteristico ma in linea con le tendenze noir del momento (soprattutto dopo l'isteria scandinava del poliziesco).
Confesso ancora: qui c'è da fare i conti di nuovo, come un oste che abbia imbrogliato sul prezzo dei piatti e riconsiderare non solo la 'vis' investigativa di Indridason, ma anche i suoi stessi patri putativi (in parte già indicati nella precedente recensione).
Siamo sempre a Reykjavik, ma contrariamente a quanto si diceva sulla delinquenzialità della capitale (centro di smistamento della prostituzione perché negli alberghi a 5 stelle si offrono donne di caratura per allietare le notti solitarie di imprenditori e ricconi. E droga che circola abbastanza liberamente da poter uccidere anche i cavalli) in Un caso archiviato prevale l'aspetto più intimistico del giallo. Anzi, oserei dire che il libro è giallo solo secondo convenzioni trite e spesso comode, altrimenti si potrebbe far passare il romanzo per un mainstream di desolazione e cattiveria.
Erlendur Sveinsson, l'ispettore protagonista della serie, deve indagare su un suicidio avvenuto in una villetta un po' distante dalla città a cui sembrano anche agganciarsi altri episodi ormai sepolti dalla polvere del tempo, come alcuni vecchi casi di persone scomparse senza lasciare traccia.
La tecnica adottata da Indridason, e quindi dalla sua 'creatura' è tipica di certa letteratura che ha avuto in Agatha Christie la maestra indiscussa: quella degli interrogatori sistematici dei protagonisti della vicenda (capiamoci: lontani dalla surreale improbabilità di un Poirot o di una Miss Marple, ancor di più dalla certosina matematica di un Ellery Queen) e dei dettagli infinitesimali che poi ad una rilettura delle deposizioni acquistano sempre più maggiore consistenza.
Ma mentre i 'mitici' investigatori del passato nella rilettura dei fatti avevano modo di esplicitare le loro formidabili e quasi divinatorie attitudini all'intreccio, Erlendur Sveinsson procede a piccoli passi in un turbine di desolazione, tristezze e disillusioni.
A questo punto il gioco è fatto; sfoltendo la massa poliziesca, quel che rimane son tracce che riconducono a sentieri diversi, ma anch'essi già battuti: e i nomi son quelli, non c'è nulla da fare. Simenon innanzi tutto, soprattutto per gli anni cinquanta e sessanta, e Mankell per i giorni nostri.
I conti di cui si diceva all'inizio sono: Indridason possiede le stesse qualità crepuscolari dei maestri citati, la stessa perizia nel sondare l'animo umano, e dunque quello che si presenta come una qualsiasi trama poliziesca, nelle mani di uno scrittore capace, può trasformarsi (e si trasforma) in una rappresentazione poco teatrale di drammi esistenziali.
In questa frenesia di noir metropolitani e di schegge impazzite da una nevrastenia allucinata, parlar di desolazione è cosa assai rara, tutto sommato.
Indridason va dunque seguito col massimo rispetto.
di Eleonora del Poggio
Confesso ancora: qui c'è da fare i conti di nuovo, come un oste che abbia imbrogliato sul prezzo dei piatti e riconsiderare non solo la 'vis' investigativa di Indridason, ma anche i suoi stessi patri putativi (in parte già indicati nella precedente recensione).
Siamo sempre a Reykjavik, ma contrariamente a quanto si diceva sulla delinquenzialità della capitale (centro di smistamento della prostituzione perché negli alberghi a 5 stelle si offrono donne di caratura per allietare le notti solitarie di imprenditori e ricconi. E droga che circola abbastanza liberamente da poter uccidere anche i cavalli) in Un caso archiviato prevale l'aspetto più intimistico del giallo. Anzi, oserei dire che il libro è giallo solo secondo convenzioni trite e spesso comode, altrimenti si potrebbe far passare il romanzo per un mainstream di desolazione e cattiveria.
Erlendur Sveinsson, l'ispettore protagonista della serie, deve indagare su un suicidio avvenuto in una villetta un po' distante dalla città a cui sembrano anche agganciarsi altri episodi ormai sepolti dalla polvere del tempo, come alcuni vecchi casi di persone scomparse senza lasciare traccia.
La tecnica adottata da Indridason, e quindi dalla sua 'creatura' è tipica di certa letteratura che ha avuto in Agatha Christie la maestra indiscussa: quella degli interrogatori sistematici dei protagonisti della vicenda (capiamoci: lontani dalla surreale improbabilità di un Poirot o di una Miss Marple, ancor di più dalla certosina matematica di un Ellery Queen) e dei dettagli infinitesimali che poi ad una rilettura delle deposizioni acquistano sempre più maggiore consistenza.
Ma mentre i 'mitici' investigatori del passato nella rilettura dei fatti avevano modo di esplicitare le loro formidabili e quasi divinatorie attitudini all'intreccio, Erlendur Sveinsson procede a piccoli passi in un turbine di desolazione, tristezze e disillusioni.
A questo punto il gioco è fatto; sfoltendo la massa poliziesca, quel che rimane son tracce che riconducono a sentieri diversi, ma anch'essi già battuti: e i nomi son quelli, non c'è nulla da fare. Simenon innanzi tutto, soprattutto per gli anni cinquanta e sessanta, e Mankell per i giorni nostri.
I conti di cui si diceva all'inizio sono: Indridason possiede le stesse qualità crepuscolari dei maestri citati, la stessa perizia nel sondare l'animo umano, e dunque quello che si presenta come una qualsiasi trama poliziesca, nelle mani di uno scrittore capace, può trasformarsi (e si trasforma) in una rappresentazione poco teatrale di drammi esistenziali.
In questa frenesia di noir metropolitani e di schegge impazzite da una nevrastenia allucinata, parlar di desolazione è cosa assai rara, tutto sommato.
Indridason va dunque seguito col massimo rispetto.
di Eleonora del Poggio
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